Questa sera vorrei declinare il tema del rapporto tra la vita contemplativa e la vita attiva, ragazzi, in una maniera un po' particolare, perché noi possiamo considerare anche come abbiano bisogno di essere integrate, di essere tenute insieme, la vita contemplativa, intesa come ciò in cui crediamo, ciò che ci ha preso il cuore, la nostra scelta per il Signore, la nostra scelta vocazionale, l'amore per il Vangelo, e la vita attiva, intesa come i nostri comportamenti della vita quotidiana. Allora la cosa da ricucire prima di tutto è appunto ciò di cui parliamo con ciò che facciamo concretamente. Il tutto nel frammento, diceva von Balthasar, in una sua famosa opera teologica: il tutto, il nostro tutto, il nostro amore per il Signore, la nostra fede, con il frammento, ciò che vivo oggi nella quotidianità, che adesso qui caratterizza il seminario, il mio cammino a casa, il mio cammino.
Allora nel nostro cuore. Allora nel nostro cuore ciò che è luminoso – “fate luce” - ciò che è luminoso è il desiderio di seguire il Signore, di consacrare noi stessi a Dio, di servirlo nei nostri fratelli. Questo desiderio che rapporto ha con come mi comporto io nella vita di tutti i giorni? Questo tutto poi va a toccare il frammento della mia vita quotidiana. Rispondere a questa domanda, ragazzi, è molto difficile, perché ognuno di noi sente grandi resistenze a guardare in verità se stesso. Ecco, perché molto spesso guardiamo fuori di noi, perché è molto più facile esaminare, è molto più facile mettere sotto il nostro sguardo gli altri, le situazioni che viviamo, le comunità in cui viviamo, piuttosto che guardare ciascuno di noi a se stesso.
Un esercizio a cui dobbiamo mettere mano, ragazzi, perché diventi uno stile, un esercizio urgente - mi sento di dire, con tutta la responsabilità che ho come fratello maggiore di questa comunità – è l'esercizio di collegare le cose. Quella che chiamiamo la doppia vita, il distacco, la separazione, tra la vita in cui io penso alcune cose, dico alcune cose, credo in alcune cose, e la vita, poi, in cui io faccio altre cose. Il rischio della doppia vita, tra interiorità ed esteriorità, nasce quando, appunto, ci sono degli aspetti della mia vita che non sono collegati tra loro. Ciò che faccio quando sono a casa, come si intreccia con ciò che faccio quando sono in parrocchia? E quello che vivo quando sono sul cellulare, come può essere armonizzato con quello che io faccio quando sono in cappella?
Se mi abituo a fare questi collegamenti, impedisco che si crei, fra i diversi aspetti della mia vita, come... Io non so trovare - forse me l'avete sentito fare un'altra volta questo paragone - non so trovare un'altra immagine, perché questa mi sembra che renda benissimo. Sapete la carta, quella trasparente, che si mette per coprire le cose? È sottilissimo, è impercettibile. Quasi impossibile accorgersi che c'è perché è anche trasparente, ma pur nella sua sottigliezza, se è compatta, impedisce assolutamente, che le due parti separate vengono a contatto l'una con l'altra.
Devo fermarmi con la mia riflessione coscienziosa, devo bucherellare quella carta velina, la devo proprio bucare con le dita. Che cosa c'entra quello che sta da quella parte con quello che sta da questa parte? Ciò che faccio di giorno con ciò che faccio di notte? Sono la stessa persona. Non posso pensare che ciò che faccio di notte non c'entri assolutamente nulla con ciò che faccio di giorno, ciò che faccio con gli amici con ciò che faccio in seminario. No, no, no, io con gli amici sono una persona, poi in seminario, lo so, bisogna fare per forza certe cose, dire per forza certe cose. Che cosa c'entra ciò che dico al Padre spirituale con ciò che vivo con gli amici del gruppo? Devo tessere collegamenti e dire a me stesso che nessuna parte della mia vita deve restare scollegata con gli altri, perché altrimenti rischio seriamente di vivere una doppia vita. È così che pian piano quella pellicola trasparente si fora e la mia vita scorre più fluida, in tutte le sue parti, senza dicotomie, senza doppiezze, in un'armonia che devo sempre costruire, sempre davanti a me, ma almeno so che sto crescendo nella direzione dell'armonia e non della doppia vita. E per noi persone religiose, per noi persone consacrate, la doppia vita è un rischio reale e gravissimo, da cui dobbiamo stare lontani con tutto noi stessi.
Un elemento imprescindibile del nostro cammino, senza il quale non è possibile andare all'ordinazione e avere in noi stessi una comprensione chiara dello scopo che stiamo cercando per la nostra vita, che stiamo scegliendo per la nostra vita. Uno scopo che poi è formulato dentro di noi, nella nostra coscienza, in termini chiari, comprensibili. Uno scopo della nostra vita caratterizzato da alcune conseguenze, da alcuni aspetti. Insomma, ragazzi, è un discorso intellegibile per la nostra coscienza. Noi lo sappiamo che cosa compone ciò che stiamo scegliendo come scopo della nostra vita. Per quale scopo io ho deciso di vivere? E questo scopo sta diventando capace piano piano di dirigere le mie azioni, di dare senso alla mia vita già adesso, di guidarla, di orientarla? O tra lo scopo che io dico di avere, dico di avere, e di voler dare alla mia esistenza e ciò che vivo, non c'è nessuna coerenza? E non sto parlando della strada faticosa che percorriamo tutti, ragazzi, anche io a 60 anni, per crescere in questa coerenza. Sto parlando di nessuna coerenza. Lo scopo che voglio dare - lo ripeto perché mi sembra importante - alla mia esistenza ha come conseguenza uno stile di vita preciso. E allora questo stile di vita mi può aiutare a valutare se sto camminando, se sto crescendo. Perché, appunto, io, nella mia coscienza, ho questi contorni precisi, intelligibili, chiari, di qual è lo scopo che sto dando alla mia vita. Devo imparare da solo a valutare. Ma io sto camminando? Sto avanzando nel mio cammino? E questo si fa imparando a misurare nel proprio cuore la coerenza tra i miei comportamenti e i miei obiettivi. Desidero dare questo scopo alla mia vita: vivere il ministero ordinato nella Chiesa, consacrandomi a Dio a favore dei miei fratelli. Questo scopo, questo obiettivo, comporta uno stile di vita. Mi chiede per esempio di saper stare in mezzo alla gente. Oggi questo elemento, saper stare in mezzo alla gente, deve guidare le mie azioni, oggi. Deve orientare le mie scelte, adesso.
Diventare prete mi chiederà di promettere il celibato, questo mi chiede di saper rinunciare ad una vita sessuale attiva, esercitata anche “genitalmente”, per vivere in una continenza sessuale e nella castità affettiva. Adesso devo cominciare a camminare in questa direzione. E così via. Fatevi voi gli esempi, ragazzi, fatevi voi gli esempi.
La forza unificante della mia vita oggi, che mi porta ad agire secondo alcuni valori, a interiorizzare ciò che ascolto nella formazione. Non si può andare all'ordinazione presbiterale senza interiorizzare ciò che si ascolta nella formazione. Perché altrimenti noi andiamo dritti, dritti, verso la doppia vita senza nessuna interiorizzazione della formazione. A saper rinunciare ad alcune cose già adesso, senza perdere la serenità, senza cadere in nostalgie, perché so di avere scelto la parte migliore, so che c'è qualcosa, so che c'è qualcuno che dà gioia al mio cuore, ed è il Signore. Questa forza unificante è lo scopo che voglio dare alla mia vita. Se non lascio che esso, fratelli miei, se non lascio che esso orienti, piano piano tutto di me, io rischio seriamente di diventare un'ipocrita seriale e di ergere al sistema della mia vita l'ipocrisia e la doppiezza. Si tratta di arrivare completamente a questa coerenza, completamente all'ideale di vita che mi sono prefisso? Il realismo con cui ognuno di noi conosce se stesso sa che non possiamo dire proprio così. Però non possiamo scendere al di sotto, ciascuno di noi, di dire a se stesso: “Oggi devo fare tutto quello che posso. Oggi devo fare del mio meglio per diventare quella persona che già in parte sono e che spero di essere sempre di più domani”. Ecco, questo vuol dire bucherellare quella carta trasparente che rischia di non far comunicare mai le diverse parti della nostra vita.
All'inizio ricordavo il titolo di un'opera di von Balthasar, un'opera di teologia della storia, pubblicata nel 1963: “Il tutto nel frammento”. Il grande teologo si chiedeva se fosse possibile superare la separazione, la diastasi fra il tempo puro dell'amore, il tempo di Dio, e il tempo del peccato, il tempo della nostra storia, delle nostre storie di vita e se i frammenti di cui spesso è fatta la nostra vita potranno mai arrivare ad una pienezza. Che cosa dobbiamo dire, ragazzi? La frammentarietà è l'ultima parola della nostra vita? Ciò che faccio di notte, ciò che faccio di giorno, ciò che faccio con gli amici, ciò che faccio in seminario, ciò che faccio a scuola, ciò che faccio quando sono in camera mia? Questa è l'ultima parola? Tutti questi frammenti che non c'entrano niente gli uni con gli altri? Il frammento è il nostro tutto? Il frammento è il nostro destino? E non sono domande oziose, ragazzi. Le vere domande teologiche non sono mai domande oziose, sono domande che riguardano la vita. Questa domanda di von Balthasar è una domanda sulla nostra vita. Questa domanda siamo noi: il frammento è l'ultimo destino della nostra vita? O il tutto? C'è qualcuno che è in grado di dare una risposta a quella domanda che siamo noi? Noi crediamo di sì. Crediamo con la nostra fede, ragazzi, che è possibile ricapitolare in Cristo tutti i poveri frammenti delle nostre esistenze dentro di noi. Ma questa ricapitolazione, che sarà un dono di Dio, sarà frutto della sua grazia, che ci edifica come Tempio - l'abbiamo detto in questa settimana e l'abbiamo ascoltato oggi - questa ricapitolazione in Cristo, ragazzi, non avverrà senza di noi. Non avverrà senza di noi.
E ciascuno di noi deve decidere se percorrere la strada della doppia vita o quella dell'integrazione in Cristo, il nostro Signore, dei propri poveri frammenti.
Omelia Secondi Vespri della solennità della Santissima Trinita