MENS CONCORDET VOCI
Traccia Formativa 2020-2021
Introduzione
1. Il tradizionale adagio che fa da titolo alla nostra traccia formativa è ispirato ad un passaggio della Regola di San Benedetto: il monaco deve recitare l’Ufficio sotto lo sguardo di Dio e dei suoi angeli “ut mens nostra concordet voci nostrae” . Anche il Concilio cita in due passi della Costituzione sulla Liturgia le parole di Benedetto. Esse meritano la nostra attenzione, per evitare un fraintendimento: a noi sembrerebbe quasi che debba essere la nostra mente, il nostro spirito, a dover guidare le parole, per cercare di esprimere ciò che abbiamo dentro, e invece l’adagio benedettino riconosce che prima viene la voce, ciò che si sta agendo nella liturgia, e il secondo movimento è quello dello spirito che è chiamato a seguire le parole che si stanno pronunciando: mentre i monaci cantano i salmi, il loro spirito deve lasciarsi condurre ed impregnare da ciò che cantano. Questo insegnamento antico ci può aiutare ad esprimere una caratteristica essenziale della liturgia: quando celebriamo, quale deve essere il rapporto tra la nostra esteriorità e la nostra interiorità? La priorità è della voce, e cioè della preghiera pronunciata, del gesto liturgico, dell’azione che insieme stiamo compiendo, e l’auspicio è che l’azione liturgica dia unità al pensiero, allo spirito, all’interiorità. Il movimento dunque va dall’esteriorità all’interiorità.
2. Nella vita, del resto, tante volte è accaduto che dei gesti esterni – a mo’ di rito – abbiano sostenuto e nutrito la nostra vita: quella rituale è anche una dimensione antropologica essenziale. Anche solo dal punto di vista umano, infatti, è il rito lo strumento attorno al quale si snoda il percorso con cui ciascuno giunge a prendere il suo posto nella vita e nella società. Donald Winnicot ha studiato come l’intera gamma di riti nella vita abbiano origine dai gesti “rituali” con i quali la mamma fa addormentare il bambino. Abbiamo imparato così che ci sono degli oggetti/riti/parole/gesti che ci aiutano a passare da una situazione ad un’altra, dal calore della mamma al distanziamento da essa, dalla luce al buio, dalla veglia al sonno. È attraverso questi passaggi che inizia lo sviluppo personale del bambino. Un matrimonio, un funerale, un battesimo, sono momenti di passaggio, in cui una persona esce da una situazione ed entra in un’altra. Ogni atto liturgico è un momento di un processo attraverso il quale noi camminiamo verso la nostra identità, diventiamo poco a poco noi stessi, camminiamo verso un livello successivo a quello in cui siamo e così, e-ducandoci, uscendo fuori da noi, accediamo alla nostra vera realtà. Questo è vero anche teologicamente: è nella liturgia che noi diventiamo, per grazia, ciò che siamo, figli di Dio amati e perdonati.
3. Quando celebriamo dunque non si tratta di avere dei bei pensieri, o di nutrire dei sentimenti interiori profondi, da esprimere poi nella celebrazione, ma esattamente il contrario: dobbiamo lasciarci prendere, coinvolgere da un’azione fatta di parole e di gesti che hanno lo scopo di trasformare la nostra interiorità e l’intera nostra esistenza. Tante volte i padri hanno meditato su questa capacità della liturgia di trasformare il cuore: “sicut ostendunt labia, fiat in coscientia” diceva Sant’Agostino (Disc. 227, PL 38,1109): quello che esprimiamo con le labbra, dobbiamo far sì che accada nel cuore. Che cosa avviene di così importante, quando celebriamo, da avere il primo posto su tutto? Quando il Concilio parla della liturgia, si immerge nel Mistero Pasquale di Cristo, che è l’unica liturgia della Nuova Alleanza. Dice il Concilio:
“Per questo motivo in Cristo « avvenne la nostra perfetta riconciliazione con Dio ormai placato e ci fu data la pienezza del culto divino ». Quest'opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio, che ha il suo preludio nelle mirabili gesta divine operate nel popolo dell'Antico Testamento, è stata compiuta da Cristo Signore principalmente per mezzo del mistero pasquale della sua beata passione, risurrezione da morte e gloriosa ascensione, mistero col quale «morendo ha distrutto la nostra morte e risorgendo ha restaurato la vita». Infatti dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa.” (SC 5)
La liturgia è il culto della Chiesa, poiché essa è il culto stesso reso al Padre dal Cristo, di cui la Chiesa è il sacramento. Ecco perché la liturgia viene prima dei nostri pensieri, e anzi ha la forza di trasformare il nostro stesso cuore. Quando noi celebriamo, entriamo nella Pasqua del Signore, e viviamo un atto di fede e di amore, che ci mette in dialogo con il Padre, per mezzo di Cristo, nella forza dello Spirito Santo.
4. Possiamo comprendere così anche in che senso la riflessione sulla liturgia ha un legame profondo con ciò che ci siamo detti lo scorso anno sulla creatività. Mentre celebriamo Dio stesso entra in noi e ci trasfigura, ri-crea il nostro cuore. Noi crediamo che le azioni liturgiche hanno una potenza creatrice in noi, una potenza che viene dall’alto. E anche in un secondo senso l’atto liturgico è sempre creativo: nella sua unicità non esiste se non quando è agito, e non nel senso che dobbiamo pronunciare parole mai dette prima o stravolgere i testi a nostro piacimento, quanto piuttosto nel vivere la liturgia come un modo di ripresentare il mistero di Cristo e della nostra fede, da un lato, e gli elementi della nostra vita dall’altro, in modo così profondo che essi possano raggiungere l’esperienza di tutti mentre si compiono.
Ha scritto un liturgista francese ormai molti anni fa:
“L’atto della liturgia dovrà sempre essere non l’esecuzione di un dato ma la ri-creazione a partire da questo dato, anche se tutti gli elementi che costituiscono questa liturgia non sono elementi creati qui ed ora, né per il qui ed ora. La creatività vera del prete si esercita nell’atto stesso della liturgia, e non quando egli compone sulla sua scrivania un testo nuovo. La liturgia non è innanzitutto un testo, non più che la musica sia uno spartito. Ciò che conta, è il modo in cui lo spartito è utilizzato dal musicista che vuol fare della musica per se stesso e per il pubblico. Ogni volta, la musica è ricreata. Ciò che conta in liturgia, è la maniera in cui il testo liturgico è utilizzato dal prete o dal ministro che è incaricato di pregare e di far pregare un popolo. Ogni volta la preghiera deve essere ri-creata. E pertanto il musicista esegua bene lo spartito...” .
5. Attorno a queste affermazioni si raccolgono tante domande: come facciamo a cogliere la nostra vita quotidiana, in tutte le sue dimensioni e la sua ricchezza, nella liturgia? Con quale atteggiamento dobbiamo vivere le nostre liturgie per arrivare a pregare e lasciare che la nostra vita entri in contatto con il mistero di Cristo? Qual è il modo in cui dobbiamo “suonare” lo spartito della liturgia perché essa diventi una musica sempre nuova e sempre capace di rigenerarci? Che cosa invece potrebbe ostacolare l’azione di Dio che ci ri-crea attraverso l’azione liturgica? Dedicheremo quest’anno a rispondere ad alcune di queste questioni, a partire da questo scritto che ispira l’inizio dell’anno e il cammino formativo della nostra comunità.
I
La liturgia e la vita
Ad ottenere però questa piena efficacia, è necessario che i fedeli si accostino alla sacra liturgia con retta disposizione d'animo, armonizzino la loro mente con le parole che pronunziano e cooperino con la grazia divina per non riceverla invano [28]. Perciò i pastori di anime devono vigilare attenta mente che nell'azione liturgica non solo siano osservate le leggi che rendono possibile una celebrazione valida e lecita, ma che i fedeli vi prendano parte in modo consapevole, attivo e fruttuoso. (SC 11)
6. Il legame tra la nostra esistenza e la liturgia si coglie facilmente quando viviamo delle celebrazioni che partono da avvenimenti personali, come un battesimo, o un funerale, e soprattutto per noi un’ordinazione. Se i nostri genitori sono davanti all’altare e stanno celebrando il 25°, la liturgia di benedizione degli sposi fa nascere nel nostro cuore quasi spontaneamente una grande gioia, la gratitudine ci rende attenti ad ogni parola ascoltata, i ricordi si mescolano con le formule recitate, e la speranza si illumina e diventa una festa dei cuori mentre ascoltiamo “Guardali, o Signore, con occhio di predilezione e come li guidasti tra le gioie e le prove della vita, ravviva in loro la grazia del patto nuziale, accresci l'amore e l'armonia dello spirito” (dal benedizionale).
7. Ma non possiamo fermarci a questo. E del resto la maggior parte delle nostre celebrazioni liturgiche giunge senza un esplicito e facilmente riconoscibile legame con un avvenimento della nostra vita: a partire dalla domenica, o dalla Pasqua. Indipendentemente da come stiamo, e da che cosa stiamo vivendo a livello personale o comunitario, arriva ogni anno il Natale del Signore, la Pasqua della sua Resurrezione. Che rapporto c’è tra questa oggettività liturgica e la nostra esistenza quotidiana?
Questo rapporto è innanzitutto la nostra fiducia nel Signore a crearlo: noi partecipiamo alla liturgia con la speranza che attraverso di essa il Signore ci farà un dono, e per questo ci predisponiamo all’ascolto, apriamo il cuore in qualunque stato esso si trovi, attendiamo una scoperta, una luce, un pensiero, un’emozione, anche se non sappiamo bene prima che cosa ci succederà. Noi iniziamo a celebrare animati da questa speranza, sempre. Essa ci deve portare a lasciare che riverberi sulla nostra vita, quasi come un rimbalzo, ciò che abbiamo visto, ascoltato, detto, ciò che si è compiuto nella liturgia a cui abbiamo partecipato. Facciamo la comunione, e questo atto liturgico con il suo dono di grazia ci aiuta a dimorare in Dio, e a vivere più solidali con gli altri, anche se umanamente ci stavamo sentendo chiusi in noi stessi; ascoltiamo il vangelo delle Beatitudini mentre viene proclamato nell’assemblea e un riflesso di felicità ci raggiunge insieme a quelle parole; sentiamo che il presidente sta rendendo grazie a Dio nel prefazio e il nostro cuore inizia pian piano a cantare l’amore del Signore. La liturgia tocca la vita anche così: ci sostiene, ci alimenta, e ci aiuta - quando la ascoltiamo profondamente e la comprendiamo nel suo senso più profondo - ad aprirci al mistero della fede, e da esso la nostra esperienza esistenziale si arricchisce, si amplia, si apre a dimensioni più vaste: ci conduce verso il Padre.
8. Per il nostro inserimento in Cristo nel Battesimo, siamo sacerdoti, e questo nostro sacerdozio lo esercitiamo ogni volta che nella vita, sostenuti dalla liturgia, viviamo nella santità. La santità della vita è infatti il vero culto cristiano- Agostino ha una pagina bellissima in cui chiarisce il rapporto tra la liturgia e la vita, spiegando come il vero sacrificio è ogni opera buona in cui ci impegniamo ad unirci a Dio, e quindi tutte le azioni di misericordia compiute verso noi stessi e verso gli altri riferite a Dio:
“Pertanto l’uomo stesso consacrato nel nome di Dio e a lui promesso, in quanto muore al mondo per vivere in Dio, è un sacrificio... quando mortifichiamo il nostro corpo con la temperanza... anche questo è un sacrificio...diviene un sacrificio l’anima stessa quando si pone in relazione con Dio affinché, accesa dal fuoco del suo amore, perda la forma della terrena passione, resa gradita a lui perché ha ricevuto della sua bellezza ... questo sacrificio siamo noi stessi.” .
9. L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo ci ha costretti a introdurre tanti cambiamenti nelle nostre attività pastorali, e anche le nostre liturgie ne hanno molto risentito, perché molte di esse si sono svolte senza fedeli. Se il sacrificio, come dice Agostino, è quello della vita, del corpo, della concretezza quotidiana, siamo riusciti nei mesi passati a comprendere che la privazione forzata, per tanti, della celebrazione eucaristica non era privazione di possibili liturgie domestiche e familiari? Forse l’emergenza Covid-19 ci sta costringendo a comprendere meglio il rapporto tra la liturgia e la vita. E ci sta aiutando a comprendere che è la vita a dare consistenza alla liturgia, perché in questa noi portiamo ciò che siamo, esprimiamo la nostra fede e il nostro amore, la nostra quotidianità, e contemporaneamente ne confessiamo il limite, mentre lasciamo che Dio ci nutra con la sua azione creatrice che si realizza nella liturgia.
10. Un’altra questione posta fortemente da quanto è avvenuto in questo periodo straordinario è quella del rapporto tra la liturgia e i mezzi della comunicazione digitale. In questo anno formativo sarà necessario, per chi si prepara a vivere il ministero presbiterale, leggere ed approfondire queste tematiche, che in futuro dovremo affrontare sempre più di frequente. Anche in questo senso non possiamo infatti disgiungere la vita, e i suoi sviluppi, dalla liturgia.
11. Anche quando non riusciamo a coglierla in un riferimento immediato a quanto stiamo vivendo, la liturgia apre la nostra esistenza su qualcosa che è più grande di essa, la nutre e la porta verso la trascendenza, le dona un respiro che non esce dalle nostre narici, ma da quelle di un Altro. Sì, la liturgia permette al “cielo” di aprirsi e di agire nella mia vita concreta. A volte in seminario arriviamo alla liturgia stanchi, perché ci siamo svegliati da poco, o perché abbiamo corso tutta la giornata, lo studio ci ha appesantito gli occhi e la mente. A volte anche il vuoto ci ha appesantiti, come abbiamo sperimentato tutti nei mesi della quarantena e dell’isolamento, quando non riuscivamo ad alzarci dal divano (e non avevamo fatto niente di impegnativo!). La stanchezza è indice del fatto che in noi si stanno abbassando le energie vitali. Ecco perché dobbiamo trovare riposo in qualcosa che ci dia energia, ci dia vita. Sì, ci vuole vita per ricostituire la vita. Partecipare ad una liturgia è un’esperienza rigenerante? Alla quale possiamo arrivare stanchi ed uscirne ricreati? Sul piano oggettivo è facile rispondere: essa ci mette a contatto con la fonte della vita, e quindi certamente essa è, nel senso pieno, un riposo vero, una autentica rigenerazione. Ma sappiamo per esperienza personale che non sempre, nella concretezza della nostra soggettività, questo accade. Eppure se la fede della Chiesa ci insegna che è il mistero stesso della Pasqua del Signore a costituire il cuore di ogni azione liturgica, quando noi siamo in essa e la vita di Cristo ci tocca, deve essere sempre possibile lasciarsi contagiare da una gioia profonda. Se abbiamo lasciato che ciò che stiamo facendo allarghi un po’ il nostro orizzonte, e ci faccia mettere anche soggettivamente alla presenza di Dio, sentiremo sempre un’energia nuova scorrerci dentro, una gioia che ristora e riposa, mentre i nessi tra ciò che stiamo vivendo e le azioni liturgiche diventano più limpidi, gli occhi del cuore si aprono, e più si allarga l’orizzonte del visibile per la nostra mente. Su questo aspetto del riposo e della rigenerazione che la liturgia è in se stessa, si gioca una grande questione pastorale, che nei tempi del Covid si è riproposta prepotentemente: la partecipazione alla liturgia domenicale. Che cosa succederebbe se aiutassimo i nostri fratelli a sperimentare che l’eucaristia domenicale li aiuta a riposarsi più che un giorno trascorso tra le luci e il frastuono in un centro commerciale? Dobbiamo sperimentare noi stessi ed aiutare tutti a sperimentare che l’incontro con il Signore e con i fratelli ci aiuta a sentirci più grandi, più vivi, così da sentire in noi il respiro che si allarga, e si fa più capace di Dio e della vita.
Ha scritto Mons. Magrassi:
“Appena sapremo infondere nel rito un palpito di vita, ci accorgeremo quale gioia, quale forza, quale slancio missionario si sprigiona dal Mistero cristiano. Nella sua celebrazione la parola annunzia il Mistero nell’atto in cui esso si compie: è una catechesi attiva, più ancora: una catechesi-azione, che non si accontenta di far conoscere una verità ma provoca un atteggiamento vitale che afferra e impegna tutto l’uomo.”
II
La liturgia e la preghiera personale
La vita spirituale tuttavia non si esaurisce nella partecipazione alla sola liturgia Il cristiano, infatti, benché chiamato alla preghiera in comune, è sempre tenuto a entrare nella propria stanza per pregare il Padre in segreto; anzi, secondo l'insegnamento dell'Apostolo, è tenuto a pregare incessantemente. L'Apostolo ci insegna anche a portare continuamente nel nostro corpo i patimenti di Gesù morente, affinché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. Per questo nel sacrificio della messa preghiamo il Signore che, « accettando l'offerta del sacrificio spirituale », faccia « di noi stessi un'offerta eterna». (SC 12)
12. “Che il nostro spirito si accordi con la nostra voce”. L’antico insegnamento benedettino che ci chiede una capacità di accordare cuore e parole, interiorità e gesto liturgico, concentrazione del cuore e attenzione a cosa sta accadendo nell’assemblea liturgica, resta fondamentale per un presbitero o un giovane uomo che si sta preparando a diventarlo. Non poche volte in uno stesso giorno dovremo presiedere o partecipare a più liturgie, e in esse sarà importante pregare noi stessi mentre aiutiamo le nostre sorelle e i nostri fratelli a farlo con noi. Se il presbitero non prega durante la liturgia che presiede, difficilmente pregheranno coloro che vi partecipano. La preghiera (quella del presidente) sostiene e facilita altra preghiera (quella dell’assemblea).
13. L’atteggiamento che oggi, sin dagli anni del seminario, ci aiuta a pregare mentre celebriamo, è quello dell’attenzione. Se ci esercitiamo in essa, fino ad acquisirne lo stile, sarà più facile per noi entrare nella liturgia senza dimenticare la preghiera. Prima di tutto – ed è qui la prima difficoltà per noi - occorrerà non concentrarsi esclusivamente sulle cose da fare - anche se bisognerà farle! – ma imparare a restare presenti a noi stessi per riuscire a fare ciò che è il nostro compito nell’assemblea (oggi aiutare il presbitero e domani presiedere), e nello stesso tempo restare stupiti di ciò che stiamo dicendo e facendo nella liturgia, che non appartiene al piano delle cose da fare, ma a quello della gratuità, dell’amore divino, della presenza del Signore. Se prestiamo attenzione a ciò che stiamo dicendo o ascoltando, ogni gesto, ogni parola può diventare una porta aperta sull’eternità, che ci fa stare contenti, appagati, raccolti in noi stessi, anche se solo per un istante. Tante volte sui libri leggiamo dell’<oggi> della liturgia, ma poche volte gustiamo questo presente di quiete, che non passa e non ci disperde nell’ansia del futuro o nel rimpianto del passato, restando invece protesi verso ciò che facevamo prima di iniziare la liturgia o verso ciò che ci attende quando essa terminerà. Eppure ogni liturgia può darci la possibilità di un dono che risveglia il cuore e lo ricrea, rifà nuova la mente e lo spirito.
14. Occorre negli anni del seminario condurre una lotta dentro noi stessi per non “dormire”, finendo per non capire che cosa stiamo dicendo quando celebriamo, e soprattutto che cosa il Signore sta dicendo a noi. Dobbiamo imparare a farci svegliare dalle parole della liturgia. Anche se poi torniamo a riaddormentarci, ma piano piano, una parola dopo l’altra, una liturgia dopo l’altra, dobbiamo permettere al Signore di svegliarci dentro, oggi stupendoci di un canto durante la messa che ascoltiamo come se fosse la prima volta – e magari lo cantiamo da anni -, domani lasciando che una parola del vangelo illumini la nostra coscienza facendoci rendere conto di ciò che stiamo vivendo e aiutandoci a dare nome a ciò che si muove dentro il cuore, e poi ancora accorgendoci di un’espressione di una preghiera eucaristica a cui non avevamo mai fatto caso, e che improvvisamente diventa eloquente e nuova. Sì, la liturgia ci deve svegliare, anche se si tratterà di un risveglio lungo, forse quanto tutta la vita, fatto di progressi e di regressioni, di sordità e di rivelazioni, di sonno e di luce. Ma non dobbiamo stancarci di chiedere a noi stessi l’attenzione del cuore mentre celebriamo.
15. Questa strada dell’attenzione, farà accadere un piccolo miracolo: da ciò che vediamo, da ciò che ascoltiamo, il cuore pian piano passa a vedere altro. Sei lì, ma sei in un altro luogo. Stai vedendo un altare, magari quello bello della nostra Cappella maggiore con la croce gemmata a cui siamo tutti affezionati, ma l’altare davanti a te è quello della Gerusalemme celeste, e i tuoi occhi vedono ritto su di esso l’Agnello immolato. Ecco, l’attenzione è un’altra forma di vista e di udito. Ha scritto Cristina Campo: “L’attenzione è il cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero.” La liturgia diventa preghiera se noi stiamo in essa con un senso dell’evidenza di ciò che sta accadendo, provando a non perdere nessuna parola, nessun colore, nessun oggetto, e nel contempo con un senso della trascendenza, fidandoci del Signore e di ciò che ci sta offrendo attraverso ciò che stiamo facendo. Ecco, riusciamo a pregare mentre celebriamo se riusciamo ad avere un sentimento profondo di ciò che è nascosto dentro i gesti liturgici, ai quali restiamo fedeli proprio perché sappiamo che essi celano un tesoro, un dono per noi da parte di Dio. Gli antichi padri avevano colto il profondo legame che esiste tra attenzione e preghiera, perché si tratta di restare davanti al Signore in attesa, pronti ad accogliere il dono che scende nel cuore. Solo che quel dono – ecco il legame tra liturgia e preghiera - non arriva direttamente: esso nella celebrazione si cela e si manifesta in un suono, in un movimento, in un canto, in una parola che risuona o in un silenzio che dona densità al gesto liturgico. Farci attenti alla liturgia così, ci aiuterà a pregare attraverso di essa, non dopo che essa è finita, quasi che la liturgia finisca per impedirci di pregare.
16. Quest’anno ognuno, con l’aiuto del padre spirituale, potrà trovare un modo per riuscire meglio a fare proprio questo atteggiamento: si potrebbe per esempio prendere l’abitudine a compieta di leggere non solo il vangelo del giorno dopo, ma anche la colletta con cui si aprirà la celebrazione del mattino successivo. Oppure nell’adorazione serale si potrà pregare con i prefazi del tempo liturgico che si sta vivendo. Chi non l’ha mai fatto potrà comprendere meglio il significato della celebrazione eucaristica leggendo l’Ordinamento Generale del Messale. Se in famiglia si è vissuta una celebrazione particolare (un battesimo, un funerale, un anniversario...) nei giorni successivi i testi utilizzati in quella liturgia potranno essere riletti e ispirare la preghiera serale in Regina Apuliae. Lasciamo che si compia nel silenzio del nostro cuore l’incontro rigenerante tra il cielo e la terra. Dio saprà fare questo miracolo.
III
La liturgia e la Chiesa
Nondimeno la liturgia è il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia. Il lavoro apostolico, infatti, è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del Signore. A sua volta, la liturgia spinge i fedeli, nutriti dei « sacramenti pasquali », a vivere « in perfetta unione » ; prega affinché « esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede » ; la rinnovazione poi dell'alleanza di Dio con gli uomini nell'eucaristia introduce i fedeli nella pressante carità di Cristo e li infiamma con essa. Dalla liturgia, dunque, e particolarmente dall'eucaristia, deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene con la massima efficacia quella santificazione degli uomini nel Cristo e quella glorificazione di Dio, alla quale tendono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa. (SC 10)
17. Durante la liturgia nessuno di noi prega da solo, e malgrado l’attenzione del cuore sia un atteggiamento che ognuno deve imparare a vivere personalmente, essa ci rende accorti al fatto che mentre celebriamo non siamo soli. Proprio la liturgia ci fa tendere le mani agli altri, ci fa “gioire con coloro che sono nella gioia, e piangere con coloro che sono nel pianto” (Rm 12,15). Anche così la liturgia nutre la vita: grazie alla preghiera con gli altri, alla celebrazione con i miei fratelli, mi tocca qualcosa che allarga il mio orizzonte.
Un altro aspetto dunque che quest’anno dobbiamo sottolineare con forza è il carattere ecclesiale della liturgia. Soprattutto noi che ci stiamo preparando a vivere il ministero presbiterale, dobbiamo stare lontani dal pensiero che la liturgia sia affare solo di pochi, di chi ha un ministero ordinato.
18. Tutta la liturgia è costruita come l’azione di un’assemblea, riunita da una chiamata del Signore, e strutturata dall’esistenza in essa di diverse funzioni, e soprattutto dalla presenza di un ministro ordinato, che non è necessario per ogni atto liturgico, ma è richiesto per le azioni propriamente sacramentali, per significare che esse sono la manifestazione per eccellenza del Signore al nostro sguardo. Ecco perché tutte le preghiere liturgiche sono formulate con il “noi”, alla prima persona plurale. Non è un plurale majestatis del prete, che non dice “io” ... per umiltà!: è il noi della Chiesa riunita, di cui il presbitero fa parte, e nella quale egli esercita un ruolo liturgico proprio.
19. È la stessa struttura della preghiera liturgica a mettere in luce il suo carattere ecclesiale. Essa articola preghiera personale e preghiera comunitaria, tiene insieme preghiera di chi presiede e dell’assemblea, sia che questa prenda la forma della parola che del silenzio. Sempre la liturgia è espressione della fede e della preghiera della Chiesa. C’è una liturgia che a noi in seminario è molto cara, a cui spesso va il pensiero e che grazie a Dio viviamo non raramente nelle nostre Chiese locali: la liturgia di ordinazione. Dopo le domande poste all’ordinando, il Vescovo invita tutta l’assemblea a pregare. E questa preghiera prende la forma delle Litanie dei Santi, in una lunga e dolce invocazione delle amiche e degli amici di Dio, che ci aiuta a situare il presente dell’ordinazione nella linea della storia della salvezza. Essa ci fa percepire l’ampiezza della celebrazione e della preghiera, che poi si prolunga nella grande preghiera di ordinazione pronunciata dal Vescovo e conclusa dall’Amen di tutta l’assemblea.
20. Nella riflessione di Agostino che abbiamo citato prima a proposito del sacrificio egli arriva alla conclusione che
“Questo è il sacrificio dei cristiani: molti e un solo corpo in Cristo. La Chiesa celebra questo mistero col sacramento dell’altare, noto ai fedeli, perché in esso si rivela che nella cosa che offre essa stessa è offerta”.
La presenza nella liturgia del Cristo dona una densità unica, una consistenza e un valore reale all’unione con Cristo che tutti interiormente viviamo nelle nostre esistenze personali, alle intenzioni del cuore con cui ci offriamo a Dio, ai gesti della vita quotidiana con cui ci sforziamo di vivere la nostra santità e che portiamo nella liturgia. Nella liturgia la nostra santità personale diventa Chiesa, diventa un atto cultuale vero e proprio, azione della comunità sacerdotale in atto.
21. Dobbiamo vivere le nostre liturgie dunque comprendendo che in esse si manifesta e si realizza il mistero stesso della Chiesa come comunità sacerdotale. Il concilio si ispira al discorso di Sant’Agostino che abbiamo a più riprese citato per dire:
“per il ministero dei presbiteri il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto, perché viene unito al sacrificio di Cristo, unico mediatore ... il loro servizio ... ha come scopo che tutta la città redenta, cioè la comunità e società dei santi offra a Dio un sacrificio universale per mezzo del gran sacerdote, il quale ha anche offerto se stesso per noi nella sua passione, affinché diventassimo corpo di così eccelso Capo.”
Nella liturgia dunque si realizza la nostra conformazione a Cristo, giorno dopo giorno, mentre ci inseriamo e diventiamo il suo Corpo, la sua Chiesa. Non c’è una configurazione a Cristo che sia individuale, isolata, essa avviene mentre avviene la nostra incorporazione a Lui, e quindi il nostro inserimento nella Chiesa. La liturgia ci ricrea somiglianti a Cristo, mentre la viviamo ci riveste di un abito che è lo stesso abito del Signore Gesù, un abito di spogliazione di noi stessi, di disappropriazione di noi, di uscita da noi per incontrare gli altri.
22. La liturgia si invera nella carità dunque, essa diventa vera quando esprime e ci spinge ad amare coloro con cui celebriamo, secondo l’insegnamento di Paolo: “se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita” (1 Cor 13, 1). Possiamo anche parlare la lingua degli angeli, ed eseguire i canti liturgici alla perfezione, e osservare alla lettera tutte le rubriche dei libri liturgici, ma se non arriviamo alla perfezione della carità, restiamo come degli strumenti musicali scordati, la cui melodia non sale gradita dinanzi al volto del Signore. Del resto la predicazione profetica ha sempre messo in guardia i credenti dal pericolo di una discrepanza tra liturgia e amore, tra culto e appartenenza comunitaria, senso di Dio e giustizia sociale:
“Quando venite a presentarvi a me, chi richiede a voi questo: che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità (...) imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova” (Is 1, 12-13.17).
Non possiamo tenere insieme solennità e delitto, liturgie perfette e mancanza di amore, senso di compunzione nelle assemblee sacre e mancanza di attenzione a chi ci vive accanto e a chi pur lontano è nostro fratello nella fede o nell’umanità. E non si tratta innanzitutto di una questione etica, ma è anche e soprattutto una mancanza di comprensione di che cosa sia la liturgia, che è appunto incorporazione a Cristo nel suo Corpo, nella logica della disappropriazione di noi stessi.
23. Anche il papa, nella sua ultima enciclica “Fratelli tutti”, ribadisce il legame che c’è tra il culto a Dio e l’amore ai fratelli.
Il culto a Dio, sincero e umile, «porta non alla discriminazione, all’odio e alla violenza, ma al rispetto per la sacralità della vita, al rispetto per la dignità e la libertà degli altri e all’amorevole impegno per il benessere di tutti». In realtà, «chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1 Gv 4,8). (FT 283)
E se il contesto immediato di questa affermazione del Santo Padre è diretto a negare ogni possibile accostamento tra religione e violenza, possiamo applicare questo principio ad ogni aspetto della nostra vita di cristiani: il culto a Dio porta al rispetto e all’amore per gli altri, la liturgia fiorisce nell’impegno per il benessere della vita delle nostre sorelle e dei nostri fratelli.
24. Una conseguenza concreta ed immediata, per noi in seminario, potrebbe essere quella di far diventare le nostre liturgie un luogo di riconciliazione fra di noi. Quando celebriamo insieme, soprattutto l’eucaristia, noi celebriamo anche la remissione dei nostri peccati, e perciò dobbiamo perdonarci gli uni gli altri: come tutti, anche noi dobbiamo obbedire alle parole del Signore e riconciliarci con il fratello prima di presentare un’offerta o offrire il nostro sacrificio di lode (cf. Mt 5,3; Mc 11,25), dobbiamo far sì che il perdono ricevuto da Dio diventi perdono offerto ai fratelli. Non c’è una liturgia autentica e gradita a Dio senza che viviamo tra noi il perdono reciproco, il rinnovamento della nostra fraternità. La liturgia è davvero una officina caritatis , il luogo in cui siamo chiamati a celebrare la misericordia piuttosto che il sacrificio (Os 6,6; Mt 9.13). Mentre viviamo i nostri anni in seminario, la liturgia e la vita fraterna sono i due luoghi in cui ognuno di noi vive una vera lotta spirituale, che ci fa passare dall’io al noi, per cercare di vincere ogni forma di individualismo. Nella liturgia, la celebrazione dei misteri di Cristo ci invita ad essere fratelli. Costituendoci fratelli, la liturgia ci provoca a lavorare ed impegnarci per diventarlo davvero nella vita quotidiana. Ascoltiamo ancora Mons. Magrassi:
“Dal sacramento si esce inviati agli uomini. È come se ci venisse detto: <Andate, e comunicate agli altri il dono ricevuto. Gridate sui tetti la Bella Notizia che Dio ci ama e ci salva>. Si va ai fratelli con la carica che viene dall’aver sperimentato l’amore del Cristo-che-si-dona. L’esistenza rimane segnata da quel dono. Si è spinti a ricalcare le sue orme, ad assumere uno stile di servizio, a riversare sugli altri quell’amore oblativo. Un amore che, appunto perché pensa solo a donare, va al di là, dove c’è più miseria, e privilegia quindi gli emarginati.”
25. Questo legame tra la liturgia e l’amore di cui parla Mons. Magrassi non può non farci pensare ad un altro grande Vescovo pugliese, il Servo di Dio Mons. Tonino Bello, e alle parole relative alla chiesa del grembiule, che tutti conosciamo e che in questo anno dedicato alla liturgia dobbiamo tener presente ancora di più:
“(il grembiule) è l’unico paramento sacerdotale registrato dal Vangelo. Il quale Vangelo, per la Messa solenne celebrata da Gesù nella notte del Giovedì Santo non parla né di casule né di amitti, né di stole né di piviali, parla solo di questo panno rozzo che il maestro si cinse ai fianchi con un gesto squisitamente sacerdotale. La cosa più importante, comunque, non è introdurre il grembiule nell’armadio dei paramenti, ma comprendere che la stola e il grembiule sono quasi il diritto e il rovescio di un unico simbolo sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l’altezza e la larghezza di un unico panno di servizio; il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo.”
Impariamo a mettere tra i nostri paramenti liturgici, in questi anni di formazione, il grembiule del servizio. Esso è il più prezioso di tutti, il più gradito a Dio, quello che ci ricorda come l’amore è ciò che rende tutta la nostra esistenza quotidiana una vera liturgia!
Conclusione
26. Il tempo della nostra vita è la figura per eccellenza della gratuità: porta nel suo grembo uno spazio di dono, di non dovuto, ci è offerto ogni mattina su un piatto d’argento, perché Dio “fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa cadere la pioggia sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,45). Nella liturgia il tempo fluisce prendendo se stesso come il proprio fine, senza avere bisogno di altro. Come la poesia, come la musica, anche la liturgia è fatta per essere gustata in se stessa, nel momento stesso in cui la viviamo: fluisce tutto, tutto accade e passa, ma fluisce per la nostra edificazione e per la gioia del nostro cuore quando si mette davanti a Dio. Sembra non restare niente, sembra non produrre niente, e serve a tutto, quando l’azione liturgica finisce tutto resta mentre tutto scompare.
27. La liturgia è così: essa è fatta per essere gustata, per metterci sulla via della meraviglia, dell’ammirazione delle opere di Dio, per sintonizzarci con l’azione della grazia. Per sottolineare questa gratuità feconda della liturgia Romano Guardini l’ha paragonata al gioco:
“Nella liturgia viene offerta all’uomo l’occasione di realizzare, sostenuto dalla grazia, il senso più singolare e proprio del suo essere, d’essere quale egli dovrebbe e vorrebbe essere in conformità alla sua vocazione divina: un <figlio di Dio>. Nella liturgia, dinanzi a Dio, egli deve allietarsi della sua giovinezza [...] fare un gioco davanti a Dio, non creare, ma essere un’opera d’arte, questo costituisce il nucleo più intimo della liturgia. Di qui la sublime combinazione di profonda serietà e di letizia divina che in essa percepiamo […] Agire liturgicamente significa diventare, col sostegno della grazia, sotto la guida della Chiesa, un’opera d’arte vivente davanti a Dio, con nessun altro scopo che quello di essere e di vivere sotto lo sguardo di Dio; significa compiere la parola del Signore e diventare come i bambini. Rinunciando, una volta per tutte, ad essere adulti che vogliono agire sempre con finalità determinate per decidersia giocare, come faceva Davide quando danzava davanti all’Arca dell’alleanza [...] il compito pertanto dell’educazione liturgica comprende anche questo aspetto: l’anima deve apprendere a non vedere dovunque scopi, a non essere troppo sensibile ai motivi utilitari, troppo prudente, troppo ?adulta?, bensì deve sapere anche vivere semplicemente. Essa deve apprendere a liberarsi almeno nella preghiera dalla irrequietudine dell’attività utilitaria, imparare ad essere prodiga di tempo per Dio; deve trovar parole e gesti per il santo gioco, senza domandarsi ad ogni momento: a che scopo e perché? .
Bibliografia consigliata
Agostino, La città di Dio, libro X, 5 e 6.
R. Guardini, Lo spirito della liturgia. I santi segni, Morcelliana, 200510.
C. Maniago, Liturgia singolare risorsa educativa, “La risorsa educativa della liturgia”, monografia di RL 48 (2011) 332-334.
M. Magrassi, Vivere la liturgia, La Scala, 1978.
Rivista di pastorale liturgica, numero speciale (2020).
Un Dio che fa fiorire l’umano
Dal giardino dell’Eden al pozzo di Sicar.
Gesù passa ancora e riaccende la vita
e lascia orme lievi sulla polvere del cuore
(e sono le orme di amici nel quotidiano)
come allora sulle strade di Galilea.
E io lo seguirò
perché mi interessa solo un Dio che faccia fiorire l’umano
Ermes Ronchi
Non è una moda quella di adottare il cammino della Chiesa italiana dell’imminente grande Convegno ecclesiale che scandisce da dopo il Concilio, ogni dieci anni, il percorso di vita delle nostre Chiese locali. E’ un esercizio di ecclesialità: si cammina insieme, ci si sente uniti dalla stessa Parola che ci interpella, si condividono analisi e prospettive future. Per dei futuri presbiteri tutto ciò è molto importante, perché il Seminario è un tempo di formazione anche all’ecclesialità. Così, per una felice coincidenza con il nostro “ciclico” ritorno all’approfondimento di uno degli aspetti della formazione, ci ritroviamo a riflettere sulla formazione umana, contemplata nella Pastores dabo vobis nei nn. 43-44 e nella Ratio della Chiesa italiana nei nn. 90-94. Nella traccia formativa vogliamo fare sintesi anzitutto di quello che la Chiesa ci chiede nella formazione nelle circostanze attuali; poi su come tutto questo si inserisce nel cammino delle Chiese che sono in Italia; sul senso delle due icone bibliche di riferimento; sul punto d’arrivo e sui mezzi del nostro cammino formativo. In quell’atto di fede nel Dio che fa “fiorire l’umano” diciamo la nostra fede nel mistero dell’Incarnazione, nella Redenzione che fa sì che la nostra vita sia redenta e trasfigurata. “Far fiorire l’umano”: sono parole sintetiche e belle come solo i poeti le sanno esprimere: ce le ha donate Ermes Ronchi nel suo “ I baci non dati”.
1. Ciò che la Chiesa ci indica per la formazione nelle circostanze attuali
Oggi che siamo più che mai sensibili alle attese e alle istanze di un sinodo, non dovremmo dimenticare che agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, c’è stato un sinodo sulla formazione dei presbiteri nelle circostanze attuali, che ha raccolto e rilanciato l’eredità conciliare su questo capitolo importante di ogni svolta della vita della Chiesa: la riforma del clero. Mai come prima l’attenzione alla formazione umana dei presbiteri è emersa come in un quel sinodo; l’espressione di PdV 43, frutto della Propositio 21 ne è una prova: “Senza una opportuna formazione umana l’intera formazione sacerdotale sarebbe priva del suo necessario fondamento”. E’ davvero un segno dei tempi questa attenzione, già in embrione in PO e OT! Di essa mi sembra opportuno sottolineare alcuni passaggi.
a- Il riferimento cristologico per delineare l’umanità del presbitero. In PdV 43 si dice chiaramente che la perfezione umana risplende nel volto del Figlio di Dio fatto uomo e traspare nei suoi atteggiamenti verso gli altri. Il Vangelo lascia trasparire la modalità con cui Gesù si relaziona con l’umanità e allo stesso tempo traccia una strada nella quale espressioni di tenerezza, compassione, senso di giustizia, condivisione, emanano da tutta la sua persona. Il cardinal de Berulle, teologo dell’umanità di Cristo nel secolo XVII, così scrive: “O Umanità santa di Gesù, tu sei un abisso di meraviglie, un mondo di grandezze, un cumulo di pregi singolari; sei il centro, il Circolo e la Circonferenza di tutta la Rivelazione di Dio. Sei il capolavoro di Dio, l’opera nella quale, come uscendo da se stesso, Egli esaurisce la sua Grandezza, la sua Potenza, la sua Bontà, e nella quale si nasconde Egli stesso per partecipare della sua stessa opera di Creatore, elevarla al di sopra di tutte le opere delle sue mani, impreziosirla e divinizzarla.”
b- L’umanità si esprime soprattutto nella qualità delle relazioni e nella condivisione di valori comuni a tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Sono tante le sfaccettature della maturità umana che si richiedono; bastino queste tre espressioni per sintetizzarle: “… i futuri presbiteri devono coltivare una serie di qualità umane necessarie alla costruzione di personalità equilibrate, forti e libere” (PdV 43). L’equilibrio indica la presenza di tanti elementi che tra loro si controbilanciano e permettono alla persona di essere virtuosa; ad esempio l’irascibilità, che è una inclinazione dell’animo umano, se orientata alla giustizia, fa sì che ci si indigni nei confronti del male e dell’ingiustizia, il che è esigito in tante circostanze. La fortezza d’animo fa sì che una persona sappia stare nelle situazioni, anche problematiche, portandone il peso e cercando di uscirne fuori lavorando anzitutto su se stesso. La libertà permette di scegliere il bene e il meglio senza condizionamenti. Perché tutto questo? Dice semplicemente PdV 43: “(per essere personalità) capaci di portare il peso delle responsabilità pastorali”.
c- La formazione umana è formazione della propria affettività, di quel mondo interiore che in modo molto felice Bonhoeffer definisce “la polifonia dell’esistenza”, un mondo che armonizza interiormente i tanti suoni/volti che incontriamo nella nostra vita! Credo che non ci sia persona più matura di chi diventa sposo e padre sul serio, non solo anagraficamente, ma “dentro”. La passione del discepolo di Cristo che è chiamato ad essere presbitero, è la passione della nuzialità e della paternità. Una sana amicizia con una coppia ci rende capaci di “rubargli il mestiere di vivere”, e ci mette in grado di testimoniarle che l’amore verginale “parla” anche all’amore sponsale. Quest’anno è stato pubblicato un libro- di cui alcuni di voi mi hanno fatto dono- che è una lunga conversazione di un uomo sposato con un prete: si intitola Caro prete, questa sera ascolti tu. Colloquio tra un giovane sacerdote e un giovane sposo. L’autore scrive nell’introduzione: “E di che mai vorrei parlarti, prete? Nient’altro che del mio essere marito, perché oggi più che mai, mi sembra per te utile, necessario, vitale, che io ti parli del mio sacramento per dirti qualcosa sul tuo sacramento. Niente di più, niente di meno”. Tutto ciò passa attraverso la riappropriazione della nostra corporeità nel suo “significato sponsale”, tanto caro a san Giovanni Paolo II: la castità è l’esercizio di questa sponsalità del corpo, chiamato a dialogare nella vita di coppia, a donarsi e accogliere l’altro gratuitamente nella vita verginale!
2. Come si inscrive il nostro cammino nelle attese della Chiesa italiana e nell’Anno della Misericordia
Chiamo attese quello che le Chiese che sono in Italia si attendono dal convenire a Firenze. Dispiace constatare che “alcuni profeti di sventura” non si aspettano niente da questo appuntamento ecclesiale: ripetono il fatalistico ritornello che tutto rimarrà come prima, che la traccia ha delle lacune, che “si potevano spendere quei soldi per darli ai poveri”(Cf. Gv 12,5). Ma non siamo poveri di comunione e di speranza? Il “convenire in unum” non può essere un momento di grazia? A dei giovani in formazione poi, non è lecito essere così pessimisti, perché a loro, per età e fase vocazionale, è affidato il futuro! Anche di questo documento, “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo. Una traccia per il cammino verso il 5° Convegno Ecclesiale Nazionale” mi permetto di sottolineare tre aspetti.
a- L’analisi della situazione della cultura italiana focalizza la radice di tutti i mali nell’autoreferenzialità: “In effetti, il male del quale il nostro tempo sembra soffrire è l’autoreferenzialità.(…) Tutto ci spinge a ritenere di essere autosufficienti e che questo poggiare unicamente su noi stessi sia il principio della vera libertà. L’autoreferenzialità è così pervasiva che s’insinua nella vita dei singoli come in quella delle comunità, nella vita del Paese e anche in quella della Chiesa. La pretesa di bastare a se stessi elimina l’altro dal proprio orizzonte, facendone un elemento di supporto oppure una possibile minaccia da cui guardarsi; sicuramente lo esclude come colui dal quale riceversi.” Non è proprio la autorefenzialità che ci fa sentire figli un po’ tristi del nostro tempo?
b- L’umanesimo di cui prendere consapevolezza non è ovviamente una corrente ideologica, un movimento culturale quale è stato quello del XV-XVI secolo proprio a partire da Firenze, ma è un modo di guardare il volto di Cristo e quello degli uomini. Viene definito “umanesimo prismatico”, “dove dall’insieme dei volti concreti, di bambini ed anziani, di persone serene e sofferenti, di cittadini italiani e d’immigrati venuti da lontano, emerge la bellezza del volto di Gesù. L’accesso all’umano, difatti, si rinviene imparando a inscrivere nel volto di Cristo Gesù tutti i volti, perché egli ne raccoglie in unità i lineamenti come pure le cicatrici.” Questo umanesimo è frutto di una lettura di fede e sapiente della nostra realtà, nella quale dietro i singoli volti, lasciandoci illuminare dal Vangelo, scorgiamo il volto di Cristo. Si compie così l’umanesimo di Mt 25: “Ho avuto fame.. ho avuto sete… ero nudo…”
c- Le vie dell’umanità nuova ci riguardano come credenti e come futuri presbiteri. Le “ cinque vie” indicate dalla Traccia di Firenze sono quelle in cui concretamente la nostra umanità sarà chiamata a spendersi e testimoniare la propria vocazione: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare. Penso ad esempio all’abitare. Come farà un presbitero a vivere “gomito a gomito” con gli altri se non ha capacità relazionali o se addirittura in esse non ha raggiunto un equilibrio che lo libera da atteggiamenti possessivi e invadenti? Come farà ad educare? E come farà a dare il primato a Dio nel trasfigurare della celebrazione dei sacramenti se sarà autoreferenziale e narcisista?
Come vedete, i temi della formazione dei futuri presbiteri sono inscritti in questa storia, in questo tempo, Ci sentiamo davvero uniti a tutto il popolo di Dio in cammino. Sentiamo che il punto d’arrivo del nostro percorso è fortemente provocato dall’Anno della Misericordia, nel quale proprio i presbiteri sono chiamati a dare testimonianza: “La parabola (del padre misericordioso) contiene un insegnamento per ciascuno di noi. Gesù afferma che la misericordia non è solo l’agire del Padre, ma diventa il criterio per capire chi sono i suoi veri figli. Insomma, siamo chiamati a vivere di misericordia, perché a noi per primi è stata usata misericordia”.
3.L’icona biblica di Adamo ed Eva: per avviare un processo di consapevolezza
“Il tempo è superiore allo spazio” ci ha detto papa Francesco in una espressione della Evangelii gaudium n.222, che non dobbiamo avere paura di ripetere, perché è la legge della storia, della formazione, di processi che si avviano in continuazione. La traccia formativa è l’avvio di dinamiche che ognuno deve portare avanti personalmente, ma che ci legano comunitariamente. Se si tiene presente questo processo si “diviene popolo”, come afferma EG 221.
La scelta dell’icona biblica di Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden: perché? Enzo Bianchi definisce quelle pagine “kerigma sull’uomo e sulla sua esistenza concreta” , la storia dell’umanità letta teologicamente, nella quale ritroviamo la nostra stessa storia. Le coordinate principali che l’attraversano dicono in maniera profonda quale è la nostra vocazione di uomini.
a- E’ vocazione di uomini iscritta nella grande opera della Creazione. L’enciclica Laudato si’ ci richiama a questa realtà di noi stessi: siamo creature, la nostra vita non si confonde con quella degli altri esseri in modo indistinto, ma rappresenta un unicum. La nostra vita è chiamata ad una ecologia integrale .
b- La nostra identità più profonda è essere creati ad immagine e somiglianza di Dio. Da lì quel roveto ardente della nostra vocazione: siamo esseri umani che in sé hanno questa profonda traccia del divino. L’essere immagine di Dio coincide con la nostra stessa creaturalità umana, definita interamente e radicalmente come relativa a Dio: la relazione con Dio non dipende solo dalla fede, ma è profondamente radicata nell’essere dell’uomo. Il peccato potrà ferirla, ma non cancellarla.
c- La differenziazione sessuale esprime come l’uomo è, come io stesso sono; non è frutto di una scelta autonoma dell’uomo che “si costruisce” come uomo e come donna, ma è nel suo stesso essere: oguno nella crescita psicofisica se ne appropria. Il legame tra maschio e femmina è immagine dell’alleanza di Dio con l’uomo e raggiunge la sua pienezza nel mistero grande di Gesù, il nuovo Adamo, e della Chiesa, la nuova Eva (cf Ef 5).
d- La realtà umana è ferita dal peccato, e ne sente le conseguenze, che sono come profonde cicatrici, nelle relazioni con Dio (l’uomo si nasconde dalla vista di Dio), con la donna (l’accusa reciproca), nella disarmonia con le creature. In Gn 3 noi abbiamo la possibilità di leggere in maniera teologica e perciò autentica, la nostra fragilità: “… vi è rappresentato il dramma dell’uomo, della storia, il dramma di ogni uomo, il mio dramma. Qui ciascuno deve saper riconoscere se stesso in Adam e vedere la propria vicenda altrimenti questa pagian serve solo all’infernale gioco dello scaricamento della colpa su Adam. E soprattutto anche in questa pagina sono sempre preseti la promessa e la benedizione di Dio sull’uomo.”
Rileggere la nostra umanità a partire da queste coordinate sarebbe un esercizio di significato profondo per la nostra vita. Partiremmo dall’umano che sono io non in maniera astratta, ma in ascolto di quella che è la mia storia concreta. Scrive Ricoeur: “La vulnerabilità della vita nella sua fragilità che si apre all’altro, è il luogo da cui prende le mosse l’etica”.
4.L’icona della Samaritana: per avviare processi di redenzione e trasfigurazione
Anche l’icona biblica della Samaritana ci accompagna all’inizio del nostro cammino. Al pozzo di Sicar avviene un incontro che rivela una storia di vita e la segna. Quella donna di fronte a Cristo attinge dal profondo del “suo pozzo” la verità su se stessa e si disseta dell’Acqua viva di Colui che con lei è misericordioso. Cosa le accade?
a- E’ raggiunta nella sua solitudine, nell’ora più calda del giorno, quando escono di casa solo quelli che non vogliono farsi vedere da alcuno. E’ raggiunta anche nella sua distanza perché a lei Samaritana un Giudeo chiede da bere. Il Signore ci attende non ad altri “pozzi”, ma nel “dove” e “quando” della nostra vita.
b- Il dialogo che Gesù instaura con questa donna la rigenera: esce dalla sua solitudine, dal sentire che non ha nulla da dare perché è Samaritana. Scopre che qualcuno “le canta la vita”, per darle la sua Acqua, la sua vita. Al pozzo di Sicar inizia il cammino formativo di questa donna, che non si nasconde, è sincera fino in fondo. Solo quando tocca la verità della sua storia è capace di tornare agli altri, come una persona salvata, che si è sentita accolta nonostante tutto.
c- Ed è mandata, benché samaritana. Come noi, guaritori feriti, inviati ai fratelli benché non più sani di loro, ma semplicemente salvati.
Cosa accade alla umanità di questa donna? Possiamo dire che è trasfigurata in un dialogo che è quello della salvezza. La stessa cosa accade nella nostra stessa avventura formativa, in un processo che si avvia solo quando ci lasciamo raggiungere da Dio nella verità della nostra persona, e non in quello che presumiamo o pensiamo di essere. Quale rapporto tra il prima e il dopo di quella conversazione al pozzo di Sicar? Credo che quel passaggio lo si possa qualificare come l’avvio di un processi di formazione, nel quale troviamo un metodo( una maniera di percorrere la strada) che vale per tutta la vita di quella donna. Ci aiuta a comprendere questo metodo una pagina di don Stefano Guarinelli ne Il prete immaturo. Scrive lo psicologo milanese: “Non si dovrebbe giungere a dire che la vocazione cristiana in una persona specifica, è in continuità psicologica con tutto il suo repertorio di attitudini. Come se, appunto, la vocazione fosse un semplice prolungamento della propria personalità: se sai parlare bene, ecco che farai il prete e magari il predicatore; se sai giocare bene a pallone sarai un salesiano; se invece ti piacciono le donne sarai un cristiano sposato; e così via. Non che debba accadere il contrario, sia chiaro. Quello della continuità, però non può essere il solo criterio, perché la logica cristiana dei carismi suggerisce una relazione più complessa con il repertorio dei propri talenti.” Quello che si dice dei talenti può esser esteso a tutto ciò che è proprio dell’umano: c’è una creatività dello Spirito che fa fiorire i deserti, rende fecondi gli sterili, fa scaturire torrenti nelle steppe. Fa fiorire l’umano. Ma questo senza prescindere dalle proprie libertà e responsabilità.
5.La configurazione all’umanità di Cristo: la meta e i mezzi per il cammino di formazione umana
Cosa accadrebbe se davanti a tutto questo mi fermassi? Credo che ci succederebbe di cadere in quello stato descritto dalla prof.ssa Annalisa Caputo nel suo splendido testo su Ricoeur : entrare nella malinconia, l’acedia, la passività di fronte alla vita. Nel testo è riportata un’incisione di Durer, Melancolia I : l’io chiuso nell’io, la situazione di chi è ripiegato su se stesso. Così viene descritta: “… un genio con ali che non dispiegherà, con una chiave che non userà, con fonde d’alloro sulla fronte, ma senza il sorriso della vittoria.” E ancora: “Non c’è autentico riconoscimento delle possibilità del sé né di quelle dell’altro. Non c’è relazione tra sé e l’altro.” La bella notizia è che ad Adamo ed Eva viene offerta la salvezza; e viene offerta alla Samaritana; e … la Storia continua. La vita del Seminario, la formazione sono questa storia di salvezza, anzitutto, nella quale la nostra umanità fiorisce. Ci sono dei pozzi ai quali il Signore ci attende:
a- La nostra vita spirituale. Deve essere intensa e vera. Deve essere il cantus firmus di tutte le altre relazioni. Questa espressione sta a significare, che l’amore per Dio non cancella l’amore umano, ma è il punto fermo di ogni altra relazione e passione. Scrive Bonhoeffer: “Il rischio implicito di ogni grande amore è quello di smarrire la polifonia dell’esistenza. Voglio dire che Dio e la sua eternità pretendono di essere amati dal profondo del cuore, senza però che l’amore terrestre ne venga danneggiato o indebolito; qualcosa come un cantus firmus, in rapporto al quale le altre voci della vita formino il contrappunto." Chiediamoci: quando la vita spirituale fa “fiorire l’umano”?
b- L’accompagnamento delle figure educative: rettore ed educatore, padre spirituale. In una relazione autentica, che richiede che entrambi ci si “metta in gioco”, si sia “presenti” ad una relazione vera che ha la sua unicità, ci si lasci guidare con verità e si accompagni con l’amore di un padre.
c- Le relazioni di amicizia, di fraternità, quelle che ci aiutano a vivere la nostra affettività. La fraternità sono chiamato a viverla con tutti: è il dono che cresce nella comunità dei discepoli e si allarga alle dimensioni del mondo. L’amicizia nasce e cresce in una vita che comunica, che non giudica, ma che non ha la pretesa di possedere, lascia libero l’altro di voler bene. La relazione e l’amicizia con le donne è un ambito in cui matura la nostra umanità e la nostra affettività: castità e celibato non devono portare ad una rimozione della presenza femminile, molto pericoloso per l’equilibrio della persona, ma a instaurare una relazione serena e amabile, non senza la lotta interiore, che non spegne le passioni, ma le converte: “Se spegni le passioni diventerai solo un eunuco, non un santo.”
d- Gli aiuti che mi vengono dalle scienze umane. Non essere sospettosi nei loro confronti… avere più diducia in chi ci aiuta a leggere e gestire le nostre inconsistenze. Vi ricordo semplicemente alcuni passaggi dei nn. 93 e 94 della Ratio italiana
e- Un rinnovato rapporto con le cose, con il creato, una pagina inedita della nostra formazione, a cui ci sollecita la Laudato sì.
Tutto questo perché la nostra umanità sia la “normale mediazione quotidiana dei beni salvifici del Regno”.
1 ottobre 2015, memoria di santa Teresina, donna in cui è fiorito l’umano
Molfetta 2 ottobre 2015
da giardino dell’eden al pozzo di sicar:
né santi né peccatori. Salvati.
Nel 1967 Paolo VI nell’enciclica Sacerdotalis celibatus scrivendo relativamente alle possibili crisi nella vita ministeriale le riconduceva anche alla mancanza di una formazione integrata cioè coinvolgente la persona nella conoscenza, volontà e nel cuore. Il papa parlava esplicitamente di “un tipo di formazione sacerdotale che, dati i grandi cambiamenti di questi ultimi anni, non è più completamente adeguata per la formazione di una personalità degna di un uomo di Dio (1Tm 6,11)”[1].
Sono passati quasi cinquant’anni dalle parole di Paolo VI e la formazione è diventata sempre più integrata a livello disciplinare e attenta alla persona nella sua complessità. Una domanda però a mio avviso resta pregnante: come deve essere, quali caratteristiche deve avere una personalità degna di un uomo di Dio?
Le risposte possono essere tante quanti siete qui e dipendono certamente da molte variabili quali l’età, gli anni di ministero, la storia personale, le circostanze concrete di vita.
Credo però sia importante non fermarsi a quelle che facilmente sono caratteristiche esterne, operative, legate al “fare” cioè all’efficienza nel ministero. Per rispondere sinceramente a questa domanda bisogna andare al cuore della questione e chiedersi: chi è l’uomo e chi sono io e, prima ancora, chi è Dio e qual è la relazione che realmente vivo con lui.
Si dovrebbe partire, se si seguisse l’ordine logico-mentale, da chi è Dio. Il rischio di questa partenza è cadere in un certo spiritualismo disincarnato che, in realtà, non aiuta a scendere nel profondo: non chi dice Signore Signore fa necessariamente la volontà del Padre mio (). Dunque, per ragioni strategiche, meglio partire dal chi sono io per poter cogliere realisticamente il rapporto con Dio.
Detto diversamente conoscere chi e come siamo aiuta a comprendere come Dio ci chiede davvero di seguirlo.
Proviamo ad esprimere questo attraverso tre passaggi
- La dimensione antropologica (chi sono io, come sono fatto?)
- Il rapporto tra umano e spirituale (creatura tra l’umano e spirituale)
- Alcuni aiuti nel cammino
- Chi sono io? Come sono fatto?
L’essere umano è caratterizzato da due mondi -finito e infinito- che coesistono in lui.
Occorre imparare ad integrarli non a combatterli.
Proprio perché siamo così c’è spazio per la salvezza.
Io sono un uomo dotato di autocoscienza[2]. Non sono una pecora che, comunque vadano le cose, è fornita solo di istinti. E l’istinto è una percezione programmata che determina risposte programmate. Alla pecora, per quanto la si possa allevare e darle un nome, ciò non cambia nulla. Brucava e resta a brucare. Lo faceva migliaia di anni fa e lo fa anche oggi.
Nel mio caso è diverso: posso dire “Io”. Ho un volto, un nome, una storia che sono unici ed irripetibili. Mi posso addentrare nei luoghi più reconditi della mia interiorità e aprirmi alla scoperta dell’universo più lontano e nascosto. Sono fatto a immagine e somiglianza di Dio… A me Dio chiede: dove sei? Cioè entra in relazione…una prospettiva da togliere il fiato!
Ma, e questo è importante, sono fatto. Cioè sono creatura. Ho una dimensione istintuale. Ho una vita limitata. Mi ammalo, muoio.
Sono libero. Ma già il mio corpo limita questa libertà.
In me ci sono, dunque, due dimensioni evidenti: il desiderio e il limite ed entrambi si fanno sentire.
Trasportando questo in termini spirituali e ritornandoo al giardino dell’Eden: amo la compagnia di Dio che viene a passeggiare con me nel giardino e, al contempo, voglio essere come Dio, anzi, mettermi al suo posto; ho fiducia in lui e nel suo amore e, al contempo, voglio proprio quello che lui mi ha detto di non prendere perché mi fa male… Ognuno può declinare questo nella sua vita… Cantiamo che niente ci turba e niente ci spaventa perché solo Dio basta e poi è sufficiente un cambio di missione apostolica per sentirci spaventati magari persino contrariati e arrabbiati…
Come mai? Dove siamo veri: quando diciamo di credere all’amore di Dio o quando ci arrabbiamo perché il rettore ci cambia l’apostolato?
Nella nostra stessa vita, dunque, constatiamo la presenza in noi di due mondi così diversi: quello dell’infinito, per cui amiamo Dio e desideriamo abbandonarci alla sua provvidenza e quello del finito per cui abbiamo paura del domani e tendiamo a basarci solo sulle nostre forze. Gli angeli (per eccesso di infinito) e gli animali (per eccesso di finito) non vivono questo paradosso di riuscire a restare in bilico tra questi due mondi.
Questo compito paradossale dell’esistenza umana si può esprimere in termini più scientifici come il compito di integrare la dimensione spirituale con quella umana, la psicologia con la teologia. Integrare ciò che di fatto l’uomo è (dimensione psicologica) con ciò che è chiamato ad essere (dimensione spirituale).
Il rischio sempre presente è di eliminare questo paradosso: sottolineare solo i condizionamenti socio-psicologici negando la possibilità della vita spirituale (solo animale) oppure al contrario, negare il terreno umano per uno spiritualismo onnipotente.
Detto diversamente la persona umana è colta tra desideri e limiti e vive così una tensione ontologica[3] che c’è sempre nella vita e tentare di eliminarla, come spesso si fa, porta a frustrazioni e perdite infinite di energie che potrebbero essere usate in modo più fruttuoso per la costruzione del Regno.
Cosa fare?
Occorre partire dal dato di fatto: in noi abita sia un processo per così dire in espansione, senza limiti, il mondo dei desideri, della continua ricerca, dell’immaginazione, degli ideali, delle aspirazioni che non è mai sazio, si spinge sempre oltre, sia un restringimento progressivo del mondo dei limiti: corporali, naturali, decisionali… questi due movimenti (uno centrifugo ed uno centripeto) sono sempre presenti in noi anche se uno può prevalere sull’altro in base alle diverse trappe della vita.
Per stare bene non basta fermarsi al punto in cui ci si trova, al contingente che è il mondo del limite ma trovare il fine per cui vivere cioè il mondo dei desideri.
Il punto è vedere come i desideri si concretizzano nel quotidiano cioè come viviamo.
Infatti i grandi ideali della chiamata come, per esempio, il dono di sé, l’amore di Dio, il voler fare la sua volontà si vedono non solo nei momenti liturgici, nelle scelte eroiche ma si manifestano nello stile delle piccole azioni e scelte quotidiane, nel modo di fare il nostro dovere, nel modo in cui parliamo o sparliamo degli altri, nei giudizi interiori che diamo a persone e cose… In tutto questo si esprime il cammino di integrazione tra limiti (ciò che siamo) e desideri (ciò che vorremmo essere) cioè il nostro percorso di crescita che implica cambiamento e, in termini spirituali, conversione. Una crescita e una conversione che sono continue perché la distanza tra ciò che si è (cioè l’io attuale) e ciò che si vorrebbe essere (cioè io-ideale) non si elimina mai.
Ma come può accadere questo?come funzioniamo?
Le fonti energetiche che rendono possibili le decisioni si chiamano bisogni e valori. Si agisce spinti dal bisogno e attratti dal valore. I bisogni sono innati sia come tendenza che come contenuti e spingono affinchè siano soddisfatti. Solo così la persona si sente appagata. I valori sono innati come tendenza (tutti cercano il bene, bello, buono) ma dipendono dall’educazione e dalla cultura come contenuti. La loro logica è quella dell’attrazione: ci attraggono ma non si esauriscono mai per cui come li raggiungiamo un po’ si spostano.
Occorrono entrambi e la chiave è ordinarli nella stessa direzione per cui bisogni e valori siano sempre più in sintonia e non in opposizione. Questo è un processo inesauribile perché siamo umani e nessun valore può essere posseduto in maniera statica e perfetta ma, nella misura in cui lo si internalizza un po’ di più si coglie che non lo si esaurisce e implica un riaggiustamento anche dei bisogni. Ecco perché la conversione è sempre in fieri e così pure il cammino di crescita spirituale. Il punto è mettersi in cammino non essere già arrivati perché non si arriva mai!
Da qui deriva il modo di cogliere le diverse opportunità e dar loro valore per poterle scegliere. In concreto, quando si comincia ad avvertire che un oggetto diventa significativo, qualunque sia, dalla scelta banale ad una scelta di vita, si hanno a disposizione due modalità di approccio: l’importante per me (qui al centro c’è il soggetto e il suo benessere) e l’importante per sè (il centro è dato dall’oggetto desiderabile in sé, indipendentemente dall’effetto che produce in me).
Il primo è automatico, il secondo richiede una certa formazione perché, anche se come capacità è di tutti, in realtà per emergere i sentimenti relativi a qualcosa che è intrinsecamente importante hanno bisogno di una certa capacità contemplativa che sa cogliere l’oggetto per quello che è. È grazie a questa modalità che possiamo desiderare cose come, per esempio, l’accogliere ogni giorno la propria croce, le persecuzione sofferte per Cristo, persino il martirio che non potremmo mai desiderare con i soli sentimenti del per me.
Del resto le nostre motivazioni sono sempre miste…
- Creatura tra l’umano e lo spirituale
Se conosci come sei fatto sei più libero di rispondere meglio alla chiamata di Dio ma non è detto che tu lo faccia e lo faccia secondo il cuore di Dio
In questa prospettiva, allora, quando una persona può dirsi di avere una personalità degna di un uomo di Dio cioè maturo umanamente e spiritualmente?
A questa domanda ora credo sia evidente quanto sia difficile rispondere.
Azzardiamo una risposta: quando accoglie nel profondo la sua realtà ontologica di essere umano caratterizzato da desideri e limiti, da un cuore che è ad un tempo grande e piccolo, si impegna non solo a conoscersi ma anche ad allargare gli spazi della libertà internalizzando i valori del vangelo. Detto diversamente: è colui che gioca lo spazio della sua libertà, attualmente disponibile, per Dio.
Infatti sapere come si è fatti e come si funziona (dimensione psicologica) è importante perché amplia di molto lo spazio della propria libertà dai condizionamenti psichici (libertà da) ma non basta: per cambiare occorrono motivazioni superiori. In altre parole: una volta coscientizzati (e perciò meglio controllabili) i condizionamenti a livello psichico, dunque con una migliore capacità di rispondere alla chiamata, non è detto che il soggetto usi questa libertà per Dio e il suo regno.
In sintesi: se conosci come sei fatto sei più libero di rispondere meglio alla chiamata di Dio ma non è detto che tu lo faccia e lo faccia secondo il cuore di Dio.
I vari elementi psichici regolatori della maturità o immaturità psicologica sono predisposizioni alla risposta vocazionale cioè l’assecondano o la contrastano anche se non sempre il soggetto ne è consapevole questo non inficia la presenza della grazia. Infatti la presenza della grazia non ha relazione diretta con la maturità umana.
Chi chiama è Dio.
Il chiamato risponde mettendo in gioco la sua libertà.
Le caratteristiche psichiche più o meno mature rendono la risposta vocazionale più o meno efficace perché predispongono o meno il soggetto ad internalizzare i contenuti della chiamata, a rispettarli e ad essere contento.
Ciò si vede meglio con il passare del tempo, le delusioni, gli insuccessi e il logorio di una fedeltà nel quotidiano: le immaturità psicologiche lasciate a loro stesse tendono ad estendersi e pian piano inficiare sempre più le aree della personalità.
La psicologia non serve per essere bravi preti, aiuta ad esserlo meglio oggi per continuare ad esserlo anche domani e per non fare pagare agli altri il prezzo delle proprie immaturità[4].
Cambiare e convertirsi…perché?
Evidentemente io posso sapere benissimo quale è la mia area debole (la psicologia mi aiuta a conoscerla) ma non necessariamente voglio e/o riesco a cambiare. Per farlo occorrono motivazioni più forti, spirituali appunto. Posso sapere di essere dipendente da persone e cose ma dove trovo la forza per iniziare un vero cammino di autonomia sull’esempio di Gesù? Come la Samaritana che sapeva bene di avere avuto cinque mariti e che non era una bella cosa (tanto è vero che va al pozzo a mezzogiorno) ma solo nell’incontro con Gesù prende davvero in mano la vita.
La volontà è importante ma da sola e alla lunga non basta.
E poi, perché cambiare? Perché l’essere dipendenti come pure l’essere dominanti – per fare solo un esempio – è sbagliato? Questo non lo dice la psicologia. Infatti il punto centrale non è l’entità del problema ma la presenza di motivazioni profonde per cambiare[5]. Se la persona non ha un sistema valoriale internalizzato e, nel nostro caso, non ha internalizzato la figura di Gesù come centro vitale è difficile rispondere. Allora si può dire che più si è maturi spiritualmente e più di ha la forza ed i motivi per cambiare per una maggior unione con Gesù.
Ma il cambiamento è un processo inesauribile.
Pensare di cambiare miracolosamente la vita sbarazzandosi del proprio passato è un pensiero magico e anche poco rispettoso della presenza di Dio nella nostra vita: quasi che il «Io sarò con voi fino alla fine del mondo» (Mt 28,20) sia un flatus vocis e nulla più. Avviare un cammino di ricerca di Cristo includendo il proprio passato ed ascoltandolo (mi ha detto tutto quello che ho fatto v39) apre la strada ad un incontro con Dio nel quotidiano della vita e dice il bisogno reale della salvezza. In concreto se è difficile cambiare temperamento tuttavia conoscendoci possiamo adottare qualche stratagemma per aiutarci. Del resto «il limite non è solo negativo. (…) Essi fanno parte della nostra vocazione personale fanno sì che io sia me stesso e non un altro»[6]. Ed essi sono lo spazio per la salvezza.
- Quali mezzi?
Di cosa si ha bisogno per un cammino così?
Tra i molto aiuti possibili ne indico due, uno interno e uno esterno: gratitudine accompagnamento.
Dalla perfezione ricercata alla povertà offerta: la gratitudine
La gratitudine viene dal latino gratia ed esprime il sentimento e l’atteggiamento interiore di chi sa di ricevere gratuitamente qualcosa. A livello esistenziale esprime la riconoscenza di colui che si sente posto nel mondo senza alcun merito e tutto gli è donato senza richiesta di contraccambio[7]. È direttamente collegata all’umiltà[8] di non credersi del tutto indipendenti, autonomi, sganciati da ogni bisogno di relazione con gli altri e alla fiducia che il bene vissuto è promessa di bene futuro.[9]
Dunque un guardare la realtà nei termini di ciò che si è ricevuto e si riceve e non di ciò che non si ha e si vorrebbe da cui consegue uno sguardo sul proprio futuro in termini promettenti poiché la persona grata per il molto ricevuto da Dio sente di avere buoni motivi per sperare: so in chi ho posto la mia fiducia (Paolo).
Più si è grati, più si è sereni rispetto a se stessi e alla propria vita e più si sente la pace del cuore. Ciò accade poiché la gratitudine sembra conferire bontà alle cose: le cose percepite come doni ricevuti sembrano migliori e si impara a vivere Dio non come un concorrente della propria felicità. Ciò è importante anche di fronte a «eventi stressanti o difficili perché chi ha coltivato uno spirito di gratitudine trova più forza interiore per poterli affrontare proprio perché lo sguardo di chi è grato tende a rivolgersi fuori di sé, rendendosi attento alle difficoltà altrui, sperimentando la sensazione di essere utile a qualcuno; questo modo di porsi protegge dalla autocommiserazione e dal ripiegamento su di sè»[10]. Molto diverso è il rancoroso che cova rancore andando e riandando ai presunti suoi diritti violati o ai presunti soprusi subiti. Questo è molto pericoloso a livello sia psichico che spirituale… in fondo è ciò che fanno i farisei nei confronti di Gesù fino a che giungono alla decisione di farlo fuori…
Gratitudine come antidoto alla pretesa di possesso e come libertà di accogliere ogni dono come occasione di salvezza. Per il cristiano questa riconoscenza si collega alla generosità di Dio che lo ha chiamato per cui la gratitudine è un invito anche nei momenti di buio e di prova.
Diventa importante imparare a rileggere la propria vita (ma anche alla sera la giornata) in termini di doni ricevuti cogliendo il filo rosso che la tiene unita: solo chi riconosce che Dio da sempre agisce dentro la sua storia, attraverso le circostanze e le sue stesse caratteristiche psichiche, si può aprire alla fiducia e all’abbandono in Colui che ha dato se stesso per me (cf Paolo).
La fiducia di non essere soli: l’accompagnamento
Cogliere che è impossibile fare tutto il percorso descritto da soli appare come un’evidenza.
Eppure accettare di lasciarsi accompagnare è difficile. Giocano tanti sentimenti che possono inficiare un vero e serio accompagnamento per cui non ci si affida, non si è trasparenti, si racconta quello che si pensa l’altro voglia sentirsi dire, si svaluta l’accompagnatore quando dice qualcosa che non piace o suggerisce variazioni alle decisioni prese…
Oppure, al contrario, si delega, si chiede implicitamente che sia l’accompagnatore ad indicare la strada, a dire cosa fare e cosa no, si preferisce lasciare la responsabilità della propria vita a qualcuno che, qualora si fallisse, diventerebbe il solo responsabile da accusare…
Vivere realmente l’accompagnamento significa aver capito e accolto (non solo accettato) che non si è onnipotenti e onniscienti per cui ci si affida realmente all’azione di Dio che si manifesta attraverso le sue mediazioni storiche. Ciò implica prima di tutto la fiducia e il riconoscimento di averne bisogno perché in noi si agita piccolo e grande cuore e discernere la volontà di Dio nel guazzabuglio dei nostri sentimenti ed esperienze non è sempre facile (cf regole del discernimento ignaziano).
Ci si mette davvero a disposizione di Dio che può anche indicare una via diversa da quella che si vorrebbe…
Cosa si cerca: l’importante per me e per ciò che io ho deciso oppure l’importante per la vivere nell’amore di Dio e costruire il suo regno?
[1] Paolo VI, Lettera enciclica Sacerdotali coelibatus, 24 giugno 1967, n.60.
[2] Cf Manenti A., Comprendere e accompagnare la persona umana. Manuale teorico e pratico per il formatore psico spirituale, EDB, Bologna 2013. Più volte nella presente riflessione si fa riferimento al testo di Manenti anche senza citarlo esplicitamente.
[3] Cfr GS n. 10: In verità gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell'uomo. È proprio all'interno dell'uomo che molti elementi si combattono a vicenda. Da una parte infatti, come creatura, esperimenta in mille modi i suoi limiti; d'altra parte sente di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita superiore. Sollecitato da molte attrattive, è costretto sempre a sceglierne qualcuna e a rinunziare alle altre. Inoltre, debole e peccatore, non di rado fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe. Per cui soffre in se stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società.
[4] Manenti A., Comprendere e accompagnare…, cit., 124.
[5] Cucci G., «La dimensione psicologica e affettiva dell’esperienza di fede», in La Civiltà Cattolica (2014) 3933, 263-272.
[6] Leonard A., Il fondamento della morale. Saggio di etica filosofica, San Paolo, Cinisello Balsamo1994, 53.
[7] Cf Papa Francesco, Laudato sì, Lettera enciclica sulla cura della cosa comune, 24 maggio 2015, n. 220.
[8] Cf Papa Francesco, Laudato sì, Lettera encilcica…, cit., n. 224
[9] Cucci G., «La gratitudine, radice del benessere», in La Civiltà Cattolica (2008) 3806, 466-473, 466.
[10] Cucci G., «La gratitudine, radice del benessere», cit., 469-470.