In questa sesta Domenica del Tempo Ordinario è presentato il brano biblico della guarigione di un lebbroso da parte di Gesù. Ci troviamo ancora nel primo capitolo del Vangelo di Marco, all’inizio del ministero di Gesù. Nei versetti che precedono questo passo è descritta la modalità con cui Cristo vive il suo ministero: chiama i primi discepoli perché siano con lui, insegna nelle sinagoghe e fra il popolo, guarisce gli ammalati e gli indemoniati. In questo episodio è un lebbroso che chiede a Gesù di essere purificato, di essere guarito.
Al tempo di Gesù la lebbra era una malattia che certamente procurava un grande dolore “esteriore”, una malattia che consuma il corpo e lo rende quasi inguardabile. Ma il dolore esteriore provocava soprattutto un dolore interiore: la lebbra era, per il popolo israelita, l’immagine visibile del peccato, l’uomo malato era allontanato dalla comunità e non aveva alcun diritto davanti ad essa. Il Libro del Levitico, che abbiamo ascoltato nella Prima Lettura, parlando dello stato di un lebbroso, è molto chiaro: il lebbroso era chiamato ad umiliarsi, doveva coprirsi il capo tenendo scoperti solo gli occhi, doveva addirittura gridare di essere impuro.
Un uomo segnato da questo male, un uomo solo e abbandonato a sé stesso si rivolge a Gesù per guarire non solo dalla lebbra, ma forse, soprattutto, anche nel suo cuore. Gesù vedendolo prova compassione. Papa Francesco ha spiegato bene cosa sia questa compassione: «la compassione ti fa vedere le realtà come sono; la compassione è come la lente del cuore: ci fa capire davvero le dimensioni… il nostro Dio è un Dio di compassione, e la compassione è - possiamo dire - la debolezza di Dio, ma anche la sua forza… è un linguaggio di Dio la compassione… tante volte il linguaggio umano è l’indifferenza.» (Omelia Santa Marta Settembre 2019). Compassione e indifferenza si pongono nella vita a due estremi. Da una parte la vera compassione, quella di Gesù, alla quale siamo chiamati a conformarci: in essa io vedo l’altro, vedo il suo dolore, sono accanto a lui e non ho paura di toccarlo, di prenderlo per mano e di stargli vicino. Dall’altra parte vi è l’indifferenza, la malattia di chi non riesce a provare empatia per l’altro, di chi preferisce fare finta di nulla avendo paura della “malattia” e della fragilità altrui.
Al termine di questa pagina, ci stupisce ascoltare quello che Gesù dice all’uomo guarito, la durezza delle sue parole e il suo adirarsi con il lebbroso. Per descrivere la motivazione di questa scelta ci sono tante scuole di pensiero. R.T. France a tal proposito afferma «Gesù si adira per la sofferenza causata da questa malattia, sofferenza fisica e sociale, e che muove Gesù non solo a compassione, ma anche all’ira per la presenza di tale male nel mondo; forse anche per la spietatezza del tabù: che l’ira non sia diretta al lebbroso, è ovvio dalla risposta di Gesù.».
Ora a cosa è chiamato quest’uomo guarito? A vivere da guarito, da un uomo nuovo che vive la propria vita come trasfigurata dal tocco del maestro. È chiamato a fare «tutto per la gloria di Dio» così come ci dice San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi. Per questo motivo l’uomo purificato «si mise a proclamare e divulgare il fatto». La guarigione porta il credente a prender parte alla vita della comunità e a raccontare la gioia di essere stato toccato da Gesù. Questa è la nostra chiamata: annunciare la gioia che abbiamo provato quando il Signore ci ha pronunciato il nostro nome.
Francesco Calabretti, IV anno
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