La festa del Battesimo del Signore chiude il Tempo di Natale: dopo l’Epifania, in cui abbiamo celebrato la manifestazione del Signore alle genti, cioè a tutti i popoli della Terra, la liturgia odierna ci propone un’altra teofania, che ha per destinatari, questa volta, i giudei, alla cui comunità appartiene Gesù stesso.
Gesù ci stupisce per la decisione di recarsi dalla Galilea al Giordano per farsi battezzare da Giovanni (cfr. Mt 3,13). Sappiamo bene che Giovanni battezza i peccatori perché si convertano e ritornino a Dio. Ma Gesù? Si mette in fila con i peccatori: ha forse bisogno di convertirsi? Il dubbio assale Giovanni che, in virtù delle proprie convinzioni, spera in un Messia giudice, in un Messia forte e, invece, vede presentarsi davanti a sé un uomo mite, mansueto, che lo invita a lasciar fare e ad adempiere la giustizia di Dio.
La giustizia di Dio è compiere la volontà del Padre, manifestata nelle Scritture, nella Legge e nei Profeti, ed è questo il desiderio di Gesù, è ciò che lo spinge a sottomettersi ad un rito che di per sé richiama la conversione dai peccati. È la logica di Dio che, dopo essersi svuotato per assumere la condizione di servo, in tutta umiltà si fa solidale con i peccatori, perché tutti sappiano che Egli è davvero vicino ad ogni uomo, fino a sperimentare le sue stesse fragilità ed angosce e ad entrare nelle sue ferite per guarirle come balsamo che rigenera. Oggi probabilmente definiremmo questo situarsi di Gesù tra i peccatori, nella condivisione della loro esperienza, come empatia, cioè quella capacità di comprendere lo stato d’animo di coloro accanto ai quali ci poniamo, quella partecipazione che dice presenza. Certo, la vita donata di Gesù va ben oltre l’empatia, ma non ne prescinde.
È Giovanni, alla fine, a sottomettersi a questa necessaria giustizia e a lasciar fare: un lasciar fare che dice fiducia in Gesù e fede in Colui che lo ha inviato. Non deve essere stato facile per il Battista scendere dal piano delle proprie certezze spirituali alla concretezza di ciò che chiede la giustizia di Dio: come non è facile per nessuno di noi abbandonare le nostre visioni di Dio, i nostri progetti così vagamente - ma forse non proprio concretamente - ancorati alla Sua volontà. Lasciar fare inteso come «mollare la presa», perché noi non siamo in grado di comprendere tutto, tanto meno i pensieri di Dio. Non si tratta di compiere un salto nel vuoto, ma di lanciarsi in un tuffo nelle braccia amorevoli del Padre, pronte ad accoglierci come figli amati. Solo in questo modo si lascia spazio a Dio e all’effusione del suo Spirito; ed e così che in Gesù si rivela la figliolanza divina: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento» (Mt 3,17). Quant’è bello anche per ognuno di noi sentirsi chiamare dal Padre «figlio amato»: è una consapevolezza per la cui acquisizione forse non basta una intera vita, eppure è la nostra vocazione più profonda di uomini creati a immagine di Dio!
Gesù, ricolmo dello Spirito, è rivelato come il Servo di Dio, l’eletto, che esercita con mitezza il suo annuncio di salvezza, senza gridare, senza alzare il tono (cfr. Is 42,2), «beneficando e risanando tutti coloro che erano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,38). A questo siamo chiamati anche noi: lasciar fare a Dio, che «accoglie chi lo teme e pratica la giustizia», perché Egli operi in noi con la potenza dello Spirito e attraverso di noi, come docili strumenti di liberazione di «coloro che abitano nelle tenebre» (Is 42,7).
Mario Gargiulo V anno
Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni
La festa del Battesimo del Signore chiude il Tempo di Natale: dopo l’Epifania, in cui abbiamo celebrato la manifestazione del Signore alle genti, cioè a tutti i popoli della Terra, la liturgia odierna ci propone un’altra teofania, che ha per destinatari, questa volta, i giudei, alla cui comunità appartiene Gesù stesso.
Gesù ci stupisce per la decisione di recarsi dalla Galilea al Giordano per farsi battezzare da Giovanni (cfr. Mt 3,13). Sappiamo bene che Giovanni battezza i peccatori perché si convertano e ritornino a Dio. Ma Gesù? Si mette in fila con i peccatori: ha forse bisogno di convertirsi? Il dubbio assale Giovanni che, in virtù delle proprie convinzioni, spera in un Messia giudice, in un Messia forte e, invece, vede presentarsi davanti a sé un uomo mite, mansueto, che lo invita a lasciar fare e ad adempiere la giustizia di Dio.
La giustizia di Dio è compiere la volontà del Padre, manifestata nelle Scritture, nella Legge e nei Profeti, ed è questo il desiderio di Gesù, è ciò che lo spinge a sottomettersi ad un rito che di per sé richiama la conversione dai peccati. È la logica di Dio che, dopo essersi svuotato per assumere la condizione di servo, in tutta umiltà si fa solidale con i peccatori, perché tutti sappiano che Egli è davvero vicino ad ogni uomo, fino a sperimentare le sue stesse fragilità ed angosce e ad entrare nelle sue ferite per guarirle come balsamo che rigenera. Oggi probabilmente definiremmo questo situarsi di Gesù tra i peccatori, nella condivisione della loro esperienza, come empatia, cioè quella capacità di comprendere lo stato d’animo di coloro accanto ai quali ci poniamo, quella partecipazione che dice presenza. Certo, la vita donata di Gesù va ben oltre l’empatia, ma non ne prescinde.
È Giovanni, alla fine, a sottomettersi a questa necessaria giustizia e a lasciar fare: un lasciar fare che dice fiducia in Gesù e fede in Colui che lo ha inviato. Non deve essere stato facile per il Battista scendere dal piano delle proprie certezze spirituali alla concretezza di ciò che chiede la giustizia di Dio: come non è facile per nessuno di noi abbandonare le nostre visioni di Dio, i nostri progetti così vagamente - ma forse non proprio concretamente - ancorati alla Sua volontà. Lasciar fare inteso come «mollare la presa», perché noi non siamo in grado di comprendere tutto, tanto meno i pensieri di Dio. Non si tratta di compiere un salto nel vuoto, ma di lanciarsi in un tuffo nelle braccia amorevoli del Padre, pronte ad accoglierci come figli amati. Solo in questo modo si lascia spazio a Dio e all’effusione del suo Spirito; ed e così che in Gesù si rivela la figliolanza divina: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento» (Mt 3,17). Quant’è bello anche per ognuno di noi sentirsi chiamare dal Padre «figlio amato»: è una consapevolezza per la cui acquisizione forse non basta una intera vita, eppure è la nostra vocazione più profonda di uomini creati a immagine di Dio!
Gesù, ricolmo dello Spirito, è rivelato come il Servo di Dio, l’eletto, che esercita con mitezza il suo annuncio di salvezza, senza gridare, senza alzare il tono (cfr. Is 42,2), «beneficando e risanando tutti coloro che erano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,38). A questo siamo chiamati anche noi: lasciar fare a Dio, che «accoglie chi lo teme e pratica la giustizia», perché Egli operi in noi con la potenza dello Spirito e attraverso di noi, come docili strumenti di liberazione di «coloro che abitano nelle tenebre» (Is 42,7).
Mario Gargiulo V anno
Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni
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