«Per la fierezza con cui esibirete un giorno quel Made in Molfetta a quanti vi chiederanno informazioni sulle sorgenti del vostro indefettibile entusiasmo»

+ don Tonino Bello

... ai seminaristi

Carissimi, non c’è nessuna particolare ricorrenza che mi solleciti a scrivervi. C’è solo un sentimento profondo di gratitudine che mi porto dentro da qualche anno, e che oggi vi voglio finalmente esprimere. Anche a nome della città e della Chiesa di Molfetta, di cui siete graditissimi ospiti. Prima, forse, la gente si accorgeva più facilmente di voi. Erano altri tempi. Del resto, non potevano non dare nell’occhio trecento giovani che a pomeriggio, incolonnati per tre e divisi in dieci camerate, invadevano silenziosamente la città, fino a quando, giunti sul porto o in campagna, l’ordine del “rompete le righe” sgretolava questi plotoni disarmati in tanti cespugli di nero. Quello della passeggiata era uno spettacolo quotidiano offerto al pubblico. Un po’ come l’alzabandiera dei marinai a Taranto. E molti si appostavano ad osservarlo con un puntiglio che, se non proprio di sacro, sapeva tanto di rituale. Pochi, però, intuivano che sotto la tunica di ognuno di quei ragazzi battesse un cuore con tutti i problemi propri dell’età: l’amore, l’attesa, la paura, la speranza…

I più non riuscivano a scorgere i tumulti nascosti in quei petti, allenati allo scavo interiore, che la diuturna consuetudine con Dio rendeva disponibili alla rinuncia e capaci di progetti sovrumani. Tanto meno potevano leggere in quegli occhi, adombrati dalle falde del cappello di feltro, ma splendidi e febbricitanti come gli occhi di tutti a quell’età, i riverberi delle lotte tra Giacobbe e l’angelo, o l’epilogo degli scontri quotidiani tra tentazione e preghiera.

Sicché, di quelle giovinezze, la gente afferrava il mistero non l’umanità. L’arcana simbologia dei predestinati, non la sofferenza dei conquistatori. L’ingenuità di una gioia quasi congenita, non la fatica di chi l’equilibrio spirituale se lo suda, con un’ascetica perfino improba per quella stagione della vita. E i volti passavano indistinti, col frusciare dei ferraioli.

Oggi è diverso. Pur assoggettandovi agli stessi tirocini severi di un tempo, voi entrate nei bar e uscite dal giornalaio, passeggiate sul corso e salite sui pullman, frequentate le chiese e ricevete gli amici. Con disinvoltura. Senza il peso di ossessivi controlli sociali. Col soprassalto di gioia che qualcuno per la strada vi chiami per nome. Con una gestione della libertà che rende più autentiche le vostre scelte. E con un largo margine di rischio calcolato che rende più meritoria la vostra generosità.

La città non si accorge più di voi. Nel senso che non vi identifica più, come una volta, sulla base di moduli convenzionali costituiti dall’uniformità dell’abito e dall’omologazione del linguaggio.

Ma non è detto che non vi riconosca. Che anzi, coglie a tal punto quel tocco di classe spirituale che vi contraddistingue, da sospettare la vostra presenza perfino là dove c’è solo il vostro contagio.

È per questo che voglio ringraziarvi.

Per la diaspora di quella esemplarità discreta che, veicolata da voi, non si concentra solo nel recinto sacro del Seminario, ma si frantuma nelle periferie profane di tutto il territorio.

Per la lode corale che fate salire al cielo ogni giorno, pareggiando un conto di preghiera che diversamente risulterebbe troppo deficitario a carico di questa città.

Per l’aiuto generoso offerto settimanalmente a tante comunità parrocchiali, che si avvantaggiano della vostra freschezza spirituale e vi rubano, senza impoverirvi, i segreti del Regno.

Per la fierezza con cui esibirete un giorno, ne sono certo, quel “made in Molfetta” a quanti vi chiederanno informazioni sulle sorgenti del vostro indefettibile entusiasmo.

E per sdebitarmi in qualche modo con voi, visto che non mi riesce di dare altro, voglio assicurarvi almeno la mia preghiera.

Perché il vostro cammino di formazione sia improntato alla più trasparente autenticità evangelica, e vi manteniate lontani dal compromesso, e rifuggiate dall’ambiguità, e non scendiate a patti con l’anima borghese accovacciata davanti alla porta.

Perché dai doni offertoriali della vostra giovinezza, per la cui generosità siete ammirati in pubblico, non abbiate a sottrarre in segreto neppure una particola.

Perché, cammin facendo, non cediate all’agguato mercantile di praticare autoriduzioni sul prezzo di copertina dei vostri proponimenti di oggi, o di sottintendere larghi margini di sconto sui rigori del sacrificio.

Perché siate capaci di compassione per chi sbaglia, e abbiate «viscere di misericordia» per chi nella vita rimane sempre sconfitto, e non ci sia peccato degli altri che giustifichi la vostra intolleranza.

Perché le gioie e le speranze della terra non vi trovino refrattari. E di fronte ai dolori del mondo non vi ergiate come muri di gomma.

Perché sappiate vedere nella folla dei giovani, che la sera invadono il viale Pio XI e si appoggiano alle inferriate del Seminario, l’icona di un mondo che implora da voi l’indicazione di terre nuove e di cieli più puliti.

Perché amiate i poveri senza furie demagogiche. E vi schieriate dalla loro parte senza smanie di consenso. E vi facciate poveri voi stessi, come Gesù… «da ricco che era».

La Madonna dei Martiri un giorno vi conceda di benedire Molfetta come la palestra dei vostri allenamenti segreti alle partite, che vi auguro sempre vittoriose, dell’offertorio, della consacrazione e della comunione.

E la nostra città, anche se non si accorge del vostro fuoco di oggi, sentendo domani parlare del vostro incendio, possa andar fiera di averlo covato, per sei anni, sotto la sua cenere.

+ don Tonino Bello